
Questo vento non è forte come quello del deserto Taklamakan, vero?”
Cerchiamo di rassicurarci sulla tenuta della nostra tenda mentre nel cuore della notte pare che qualcuno abbia direzionato un idrante e una macchina del vento contro di noi. Il frastuono dello scroscio ci impedisce di parlare a bassa voce.
Quando finalmente si fa mattina veniamo sorpresi da uno strano grido: “Uuuuuuuhuuuuuuuuuuuu”
“Ma questo secondo te è un bambino?
Scopriremo poi che siamo nel pieno della stagione delle piogge – meno male non quella dei monsoni – e che l’urlo dalle curiose scale melodiche è il richiamo del piccione verde che si sposta mimetico nella giungla. Ma non è l’unica nostra sveglia: con le prime luci dell’alba echeggia una risata sonora, con un lieve accento diabolico e una scarica di mitragliatrice. È il martin pescatore, che vola veloce e sicuro effettuando millimetirche traiettorie a filo di rami stile stukas, arrivato in questi giorni sulle isole lungo la sua rotta migratoria. Anche i corvi si guardano bene dal farsi trovare sulla sua strada: quel ghigno e soprattutto quel becco non perdonano.

Il passaggio dalla città alla selvaggia isola di Iriomote è stato breve come un battito di ciglia. All’inizio, allarmati dal pericolo della vipera e di altri serpenti che infestano l’isola, facevamo fatica a camminare scalzi. Ma altrettanto breve è stato l’adattamento alla mancanza di elettricità e all’esplosione di natura.
Accendiamo il fuoco e mentre facciamo bollire l’acqua per il tè, con farina e acqua prepariamo del pane. Solita partita a backgammon e poi inizia la giornata: la spiaggia è lunga, selvaggia, una lingua oro e ruggine tra il verde e il turchese.
Approfittiamo della bassa marea e sotto la guida silenziosa e sorridente di Kaneco scaviamo nel bagnasciuga in cerca di vongole. Lui le prepara con sake e aceto, noi olio e aglio e ci condiamo gli spaghetti. Nell’acqua invece raccogliamo il “mosuku” – un alga marroncina e viscida – e non avendo minimamente idea di che farne, prendiamo spunto dal nostro maestro: ginger e salsa di soia. Oishi! (delizioso in giapponese)
Dal campeggio di Haemida Beach, ci spostiamo verso la parte settentrionale dell’isola, percorrendo a tappe e in autostop l’unica strada costiera.
Abbiamo portato solo l’indispensabile nello zaino, faremo infatti tre notti di free-camping prima di intraprendere il trekking in mezzo alla giungla che taglia l’isola da nord a sud. Il sentiero è ben segnalato con dei nastri fuxia, ma pare che parecchie persone si siano perse e per questo è necessario recarsi all’ufficio di polizia per ottenere un permesso. Prendiamo la prima imbarcazione delle 9.30 che risale il fiume Urauchi che si addentra nella foresta e in mezz’ora arriviamo all’inizio del sentiero. Da qui per otto ore saremo immersi in una vegetazione fittissima intermezzata da cascate e guadi, mangrovie e fango, circondati da mille farfalle e accompagnati da lucertole dalla coda blu o dalla pancia gialla, rane saltellanti e fortunatamente nessun serpente velenoso.
Ritornati al campeggio, la rudimentale vasca da bagno (costituita da un barile di latta sopra un fuoco a mo’di pentolone dei cannibali) e la cucina spartana ci sembreranno a dir poco un lusso..
Altri giorni di relax alla Robinson Crusoe e poi, in perfetto stile di quest’isola, un pipistrello – grosso come un bambino di due anni – appeso su un ramo a testa in giù a qualche metro di distanza ci osserva mangiare un po’ di sashimi sulla panchina del porto, la notte prima di imbarcarci per Ishigaki.

Che posti meravigliosi…ci credo che il Giappone vi sia rimasto nel cuore!:)
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Ciao zii Anna e Marco. Sono Laura la vostra nipotina ; ci mancate tanto…
che meravigliosi posti…!
SPERO CHE VOI NON ABBIATE MANGIATO LE VIPERE ALLA GRIGLIA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
UN BACIONE CI SENTIAMO PRESTO…!!!!!!!!!!!!!
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