Verde speranza

Tre ore di mare arrabbiato, sotto la pioggia battente che si riversa sul battello insieme alla spuma delle onde che ci colpiscono, correnti che si rincorrono e cavalloni che si scontrano lì dove il Mare Cinese Meridionale si mescola con l’Oceano Pacifico.  
Poi la calma, e la protezione offerta dalla terra ferma, verde e nera. Forse è questo quello che hanno provato i Tao, la popolazione di origine filippina arrivata qui con barche a remi più di ottocento anni fa dalle isole Batanes, 150 km più a sud. 


 

Pongso no Tao (“isola degli uomini”), oggi conosciuta come Lanyu, è l’isola dove iniziamo ad annusare l’atmosfera del pacifico, i tratti somatici iniziano a cambiare – non sono più cosí asiatici – e la pelle si fa più scura. Se fino al 1967 i Tao ebbero il privilegio di rimanere isolati (l’ingresso al pubblico era stato infatti vietato già durante la dominazione giapponese), dopo quella data l’apertura di scuole per la diffusione della lingua e della cultura Han e l’afflusso di turisti ne segnarono l’inizio di una lenta e inevitabile contaminazione.  
Dopo anni in cui l’essere aborigeno era visto come una vergogna e delle suddette politiche del Kuomitang volte al cambiamento dei costumi locali, con la fine degli anni novanta iniziò a farsi strada un tentativo di salvaguardare e valorizzare il patrimonio culturale delle popolazioni autoctone. Nonostante gli sforzi, purtroppo oggi sembra ormai inarrestabile la scomparsa delle tradizioni e soprattutto delle antiche lingue austronesiane, ormai sulla strada dell’oblio (cosa che accadrà probabilmente in un paio di generazioni anche per il taiwanese – un dialetto cinese portato dalla Cina continentale – ben distinto dall’ufficiale mandarino). 

 

Seppur appannata, la cultura dei Tao è ovviamente tuttora strettamente connessa al mare. La pesca avviene di notte su tipiche imbarcazioni rosse e bianche sulle quali è dipinto un “occhio”, diventato ormai il simbolo di Lanyu, che terrebbe lontano le energie negative. 

 

Tradizionalmente la costruzione della propria propria barca, considerata un’estensione materiale e spirituale di se stessi, coincide con il raggiungimento della maturità ed ogni ragazzo dovrebbe costruirsene una. Ad oggi sono pochi e vecchi i maestri che possiedono la raffinata tecnica di costruzione, che non prevede l’utilizzo di chiodi o viti metalliche e che utilizza ben undici diversi tipi di legno presenti sull’isola, cosa che in passato comportava una cura e una verifica costante degli alberi della foresta. Per motivi scaramantici da aprile a luglio non è possibile dedicarsi alla costruzione delle barche (e neanche lanciare sassi in mare), perché questo periodo coincide con l’arrivo dei pesci volanti, una stagione quasi sacra per i Tao. 

 

Ci spostiamo di villaggio in villaggio in bicicletta, lungo una stretta strada costiera tra spiagge scure e falesie, e non possiamo non notare le innumerevoli rastrelliere alle quali sono appese ad essiccare in maniera geometricamente perfetta le sagome sfilettate dei pesci volanti. A guardare bene però, scopriamo che a seconda del villaggio i pesci vengono appesi in maniera diversa.  


 

Girovaghiamo senza meta precisa, un po’ come la famigliole di maiali che pigramente si spostano da un’ombra all’altra. Almeno qui, pare che gli animali non se la passino troppo male. Ma se il maiale viene ucciso e mangiato in speciale occasioni (come la celebrazione alla fine della costruzione della barca) le capre non devono preoccuparsi di nulla, visto che il loro proprietario ci tiene a vederle crescere in numero essendo questo un indice di ricchezza.



 

Poi, raggiunto il punto più meridionale dell’isola, la triste sorpresa: un sito di stoccaggio dei rifiuti nucleari provenienti dalle tre centrali atomiche presenti a Taiwan. 

 

All’inizio degli anni ottanta la Taipower, società elettrica statale, iniziò la costruzione della discarica sull’isola convincendo i Tao che si trattasse di una fabbrica per l’inscatolamento del pesce che avrebbe portato lavoro sull’isola. Finalmente nel 1987 la popolazione locale scopri l’imbroglio e iniziarono le proteste. Purtroppo però al momento sono 98’700 i barili presenti nella discarica e, nonostante le mille promesse di procedere alla loro rimozione da parte del governo, ad oggi non è stata presa nessuna decisione e sembra che non ci sia alcuna fretta per risolvere il problema dei molti contenitori di rifiuti che versano in pessime condizioni.

Dopo aver pedalato lungo tutta la costa ovest di Taiwan, essersi resi conto della drammatica situazione ambientale in cui versano l’isola e le sue coste tra fabbriche, speculazione edilizia e terreni disboscati per lasciare spazio ad ardite coltivazioni su ripidi pendii (che franano sotto le piogge torrenziali della stagione dei tifoni), stalle di lamiera sotto il sole cocente per polli e maiali e coltivazioni dove si ricorre pesantemente all’uso di pesticidi, l’arrivare in questo paradiso e scoprire che sono riusciti a portare anche qui i peggiori rifiuti di una società che corre troppo veloce sulle spalle delle generazioni future ci ha fatto sentire completamente inermi e impotenti. 

In merito vi consigliamo di vedere il documentario “Beyond beauty: Taiwan from above” girato dal regista taiwanese Chi Po Lin: fortunatamente anche qui inizia a fare breccia un barlume di sensibilità e attenzione ambientalista.