Due moto. Nulla come due ruote sotto il sedere e le sferzate di aria in pieno viso danno il senso di avventura e libertà. Alla guida di una delle due Bayarhu, competente, veloce, sicuro. Sull’altra un personaggio sorridente ma traballante, sempre a gambe larghe (meglio che all’aria) che affronta con poca spavalderia le gobbe e le buche della pista. Un’ora e mezza, bardati come mai, ed iniziamo ad addentrarci nella taiga. La pista diventa un sentiero di fango congelato coperto da un leggero strato di neve, i guadi dei torrenti sono lastre di ghiaccio e la vegetazione inizia a farsi più fitta.
Arriviamo in una radura, ma sembra un campo abbandonato, quasi desolato. Qualche bambino, dei cani lupo, un anziano: rivolgono a mala pena la parola a Bayrahu che chiede dove sia il campo. I nostri timori sulla tensione tra di loro iniziano a rivelarsi fondati e temiamo di non essere accettati e di dover tornare indietro. Fortunatamente il nostro centauro barcollante sembra aver mantenuto migliori i contatti con gli Tsaatan (letteralmente gli “uomini-renna”) e dopo una telefonata ci guida sicuro attraverso un sentiero in mezzo a larici dorati: bambini dai sorrisi viola di mirtillo spuntano da dietro i cespugli e alcune renne fanno capolino. Una radura ancor più ampia si apre davanti a noi e si iniziano ad intravedere quattro o cinque tende tipiche di questa tribù nomade, più simili ai “teepee” degli indiani d’America che alle classiche “gher” mongole.
Pensavamo che l’accampamento fosse più grande, ma in breve scopriamo di essere arrivati nel posto giusto, dagli Tsaatan di Gombo – il capo tribù e amico di David-, e ci infiliamo nella tenda di Ocerbat per le presentazioni.
Una coperta di feltro ci separa dal terreno; ci accomodiamo intorno alla stufa e sorseggiamo del tè salato (qui si usa così), che dopotutto non è così male. Come si può ben immaginare, l’arredamento di “casa” Ocerbat è senza fronzoli: una pelle di mucca rettangolare, una piccola panca rudimentale con le scorte di cibo (farina, zucchero, sale e lievito), delle vecchie pentolacce una sopra all’altra e alcuni sacchetti appesi alla struttura in legno – onde evitare la curiosità impertinente dei cani – contenenti pane e borzog, delle sorte di piccoli panini dolci fritti.
Nonostante la comunicazione resti l’ostacolo più grande, Ocerbat ci mostra dove prendere l’acqua – c’è un torrente ghiacciato ad un centinaio di metri con un buco da cui attingere – e spontaneamente lo aiutiamo a spaccare la legna. Con un piccolo quadernino e una biro iniziamo a dare forma al nostro personale vocabolario illustrato della taiga.

Quando la giornata sta per terminare, uno strano fermento dilaga per tutto il campo. Stiamo per assistere per la prima volta allo spettacolo che ci accompagnerà continuando a meravigliarci nelle sere a seguire: l’arrivo delle renne dal pascolo. Sono più di un centinaio, sbucano inaspettatamente e silenziose dal bosco e nella luce del crepuscolo uomini, ragazze, bambini e anziane si sparpagliano con in mano rumorosi sacchettini di sale che fungono da dolce inganno per attrarre a sé gli animali. Quello che prima sembrava un immobile accampamento fermo nel tempo e nel gelo, è ora vita, tradizione, equilibrio e pace.


C’è voluta una mattina intera per imparare a fare il nodo che gli Tsaatan fanno – in un batter d’occhio – per legare le renne, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, con non poche risate dei ragazzini ad ogni nostro fallimento.
Il taglio delle corna dei maschi, o meglio di parti di esse, avviene solitamente al rientro delle renne dal pascolo in questo periodo dell’anno, quello degli amori. Questa pratica può sembrare barbara e dolorosa ma risulta necessaria per evitare eventuali ferite ben più gravi nelle quali potrebbero incorrere gli animali in combattimento. Quando ad autunno inoltrato le corna hanno ormai raggiunto la loro maturità e il velluto che le ricopre inizia naturalmente a staccarci (sono le stesse renne a strofinarsi contro gli alberi per toglierselo), il taglio non provoca che una minima sofferenza.

Gli Tsaatan hanno inoltre l’accortezza di stringere uno spago alla base della parte di corno che verrà segato per evitare l’afflusso del sangue nel velluto. I cani infine assistono impazienti a questa operazione perché sanno che il velluto staccato dalle corna fresche di taglio spetta a loro: niente viene sprecato!
Il nostro patrimonio alimentare per questi giorni, invece, consiste in patate, una verza, cipolle e barbabietole, riso, pane, marmellata e del cioccolato. Iniziamo a preparare la cena e poco dopo arriva Ocerbat, traffica con una batteria collegata al piccolo pannello solare e accende una lampadina. Gli offriamo un po’ di minestra e lui carica la stufa con un quantitativo tale di legna che rimaniamo in maniche corte per tutta la durata della cena e ci addormentiamo belli caldi (da questo momento, sarà soprannominata “botta di calore Ocerbat” ogni momento di caldo estremo). Il risveglio invece è letteralmente da brividi. L’aria è talmente fredda da non riuscire neanche a respirare se non dentro il sacco a pelo ed a farci intuire la temperatura ci pensa il cilindro di ghiaccio dentro al secchio.
Nel pomeriggio veniamo invitati nella tenda di Gombo e, mentre sua moglie (da noi soprannominata affettuosamente “Finestra” per l’assenza dei due incisivi) è intenta a friggere i famosi borzog, noi stordiamo di domande Nará, la figlia dei due che parla un pochino di inglese. Lei ha vissuto cinque anni nella capitale, ha studiato veterinaria ma ora è tornata a condurre la sua vita qui: “I want to live in the taiga” ci dice sorridendo.

È raro che le nuove generazioni decidano di seguire le orme dei genitori e portino avanti lo stile di vita nomade, così puro ma indiscutibilmente duro ed arcaico. Come se non bastassero tutti i problemi che gli Tsaatan hanno dovuto affrontare negli ultimi cinquant’anni (vedi nota a fine pagina), a minare ancora una volta l’equilibrio della tribù – questa volta dall’interno – ci hanno pensato l’afflusso di turisti e il conseguente denaro. La maggior disponibilità economica (ed alcolica) di alcuni, ha fatto passare in secondo piano il rispetto dell’autorità del capo clan, fondamentale in questo tipo di società, e sempre più giovani preferiscono seguire il modello occidentale e la vita sedentaria.
Narà ci conferma inoltre quello che già sapevamo: a causa del divieto di caccia nella taiga non rispettato, alcuni Tsaatan, tra cui suo fratello, dovranno presentarsi a giorni nel tribunale di Moron, motivo per cui lei ed altre donne della tribù li sostituiranno nei prossimi giorni nella transumanza delle renne verso i pascoli a tre giorni di cammino più a nord. Ci avverte inoltre che l’indomani tutto il campo leverà le tende – nel vero senso della parola – per spostarsi invece nel campo invernale a circa due chilometri. Se intendiamo rimanere con loro, dovremo dare una mano.
Con la pancia piena di borzog ed eccitati dal nuovo incarico (all’inizio pensavamo che ci dicessero di dover andare via) rientriamo in tenda per la quasi consueta minestra. Oltre ad Ocerbat e suo figlio (si, l’abbiamo scoperto anche noi in questo momento), ci sono due filettini di carne che sfrigolano sul coperchio della stufa: pensiamo che sia renna, invece è il risultato di una fortuita caccia all’ermellino. La pelliccia dell’animale perfettamente scuoiato – senza che muso, corpo o zampe si siano rovinati – penzola già all’interno della tenda. Stando a quello che abbiamo potuto capire, l’animale si era incautamente rifugiato su un albero e lui, per non farsi sfuggire l’occasione di mettere sul piatto un po’ di proteine, ha risvegliato in un attimo il suo istinto e ha colpito l’animale lanciando un ciocco di legno. Difficile immaginare il pacato e quasi svogliato Ocerbat in una veste così scattante!

L’indomani iniziamo a smontare la tenda ed impacchettare il tutto in sacche comode da legare sul dorso delle renne. Anche i pali di legno vengono legati insieme e trascinati dagli animali.
Arriviamo con un sentiero al nuovo campo in meno di un’ora e togliamo da terra rami ed erbacce di troppo. Rimontiamo la tenda sotto la direzione di Ocerbat ma questa volta non è molto a prova di spifferi. Glielo facciamo notare ma lui fa spallucce, così raccogliamo del muschio misto a terra ed erba e tappiamo tutti i buchi tra tenda e terreno. Lui ci guarda stupiti, sorride e ci fa il pollice alzato.
La sera stessa del “trasloco”, quasi a darci il benvenuto nel campo invernale, le temperature precipiteranno di parecchi gradi. Non possiamo immaginare come farà il gruppo che partirà domani verso nord a sopportare il freddo senza la minima attrezzatura appropriata e dormire all’addiaccio con solo il calore delle renne e del fuoco (e qualche coperta di lana).
La partenza delle renne infonderà in noi un senso di vuoto come se si fosse portata via la vita del campo. Vedere Ocerbat, suo figlio, Nará e altri del campo allontanarsi e scomparire nel folto della taiga mentre gli anziani restano, saranno una delle scene più toccanti e tristi a cui assisteremo.


Siamo rimasti soli nella “nostra” tenda, ma come avremo modo di notare c’è un continuo andirivieni tra le tende del campo e non ci si sente mai soli. Tra tutti ci viene a trovare anche Gombo, e ci fa capire che domani, giorno supposto per la nostra partenza, sono previsti neve, vento e gelo. Visto come aveva azzeccato le previsioni nei giorni precedenti, iniziamo a pensare di fermarci un giorno in più, anche se le scorte di cibo iniziano a scarseggiare, per non dire che sono esaurite. È rimasto uno snikers che vogliamo tenere per il viaggio di ritorno e due fette di pane.
Approfittiamo di una delle tante visite di Monodent (altro nomignolo dato a Tzi-tzi, la sorella di Finestra e di Ocerbat) per chiederle di prepararci del pane (ovviamente da comprare) in modo da poter tirare una giornata. Affamati e senza nulla nello stomaco raccogliamo legna e la spacchiamo in modo da non far morire mai il fuoco e dopo aver ben caricato la stufa ci mettiamo in cammino per andare a prendere l’acqua al solito torrente, distante ora un paio di chilometri. Fin quando non ci saranno precipitazioni più abbondanti e non sarà quindi possibile raccogliere la neve per scioglierla, bisognerà andare nel torrente vicino al precedente campo.
Entriamo nelle varie tende, o meglio, ci facciamo sentire da fuori – non abbiamo ancora superato il naturale blocco a entrare nell’intimità delle tende altrui senza “bussare”, cosa che invece è prassi tra i nomadi – e ci facciamo consegnare qualche secchio vuoto. Renderci in qualche modo utili ci fa sentire parte della comunità. Mentre spacchiamo il ghiaccio con l’ascia e aspettiamo che il livello del torrente risalga per potere continuare a riempire secchielli e teiere, la fame inizia a torturarci i pensieri: polenta oncia e formaggio fuso non ci danno tregua. Ma nella taiga le sorprese non mancano, e se il giorno precedente in cambio del nostro servizio di “acqua a domicilio” ci era stato offerto suutei tsai (tè con latte e sale) con latte di renna e ottimi borzog nella tenda di Toula, la donna più anziana della taiga (62 anni), oggi restiamo senza parole nel vederci offerto del formaggio di renna, squisitamente simile al parmigiano ma dolce, ovviamente accompagnato da suutei tsai e borzog. Quando poi Monodent ci consegna un’intera pagnotta ancora calda, ne divoriamo subito qualche fetta e il resto la portiamo con noi nel sacco a pelo per evitare che si congeli. È l’ultima nostra notte tra gli Tsaatan, ma tutto quello che abbiamo vissuto questa settimana rimarrà indelebile.
Partiamo col sole ma poco dopo il cielo si vela e, nonostante abbiamo addosso tutti i vestiti e le giacche a nostra disposizione – per farvi un idea: calzamaglia, pantalone tecnico aderente antivento, jeans e pantaloni in goretex, maglietta tecnica, maglietta in lana merino, due pile, piumino e le famose giacche di 4 kg di pelo di cui Bayarhu ci ha dotato – e il peso dello zaino ci faccia faticare, il freddo non ci molla un attimo. Solo dopo ventisei chilometri e sei ore di camminata no-stop arriviamo alla nostra agognata meta.

L’acuirsi del gelo non è stata solo una nostra impressione. L’intera superficie del lago è ora ghiacciata: moto e macchine lo attraversano da una parte all’altra. Senza neanche pensarci torniamo dalle “Zie”, che forse per premiare la fedeltà oppure per paura di essere divorate ci servono delle porzioni più abbondanti del solito e del pane fritto, e poi ci fanno uno sconto.
Bayarhu ci accoglie stupito, non riesce a credere che siamo tornati a piedi dalla taiga correndo il rischio di farci attaccare dai lupi (noi a dire il vero non sapevamo di questo pericolo) e subito ci accende la stufa. Le nostre quattro mura ci ora sembrano più familiari che mai. Per i giorni a seguire, ogni mattina sua moglie ci porterà un piatto con due pesci e del riso, forse anche lei ha letto la fame nei nostri occhi! A proposito di pesci! Andiamo alla ricerca di Gambat, il fumatore di pipa che ci aveva invitato a pescare. Bussiamo alla sua porta ma la moglie ci fa segno di andare a cercarlo sul lago. Muovere i primi passi sulla superficie ghiacciata da soli non è rassicurante e mano a mano che ci si allontana dalla costa la sensazione peggiora. Pur vedendo in lontananza diversi gruppi di pescatori e addirittura un furgoncino che passa indisturbato, i rumori indescrivibili che gli enormi blocchi di ghiaccio fanno stritolandosi tra loro ci fanno sentire sul filo del rasoio.


Ma anche questa volta è bastato poco per prendere confidenza, e abbiamo finito la giornata facendo scivolate e fotografando bolle congelate perché Gambat, alla fine, non l’abbiamo trovato..
* Durante i primi anni sessanta, prendendo esempio dall’Unione Sovietica e sotto lo stesso controllo di Mosca, venne applicato un programma di sedentarizzazione forzato per i nomadi della taiga, che diede vita al villaggio di Tsagaan Nuur.
Nel 1979, per accrescere ancor di più la produttività di questa regione, venne introdotta una caccia indiscriminata a cervi e renne selvatiche, togliendo così la principale fonte di cibo per gli Tsaatan, ma non solo. Infatti le renne selvatiche servivano anche come fonte di arricchimento del patrimonio genetico di quelle domestiche e venendo a mancare, le renne iniziarono piano piano ad indebolirsi.
Solo nel 1985 gli Tsaatan poterono tornare a condurre una vita nomade – grazie ad un programma che li riconosceva come allevatori per lo stato – ma nel frattempo la Repubblica di Tula (al di là del confine mongolo, in Russia) vietò l’attraversamento dei confini impedendo quindi agli Tsaatan di seguire il loro storico itinerario ciclico stagionale. Questo comportò una permanenza più lunga negli stessi pascoli e campi, e la particolarità del terreno durante il periodo estivo e l’abbondanza di feci e urine in aree circoscritte aumentarono quindi il rischio di parassitosi.
Soltanto sette anni più tardi i nomadi poterono riacquistare ad un prezzo politico le renne e tornare definitivamente alle proprie origini. Per procedere alla vendita e alle varie formalità di registrazione, tutte le renne furono portate a Tsagaan Nuur e furono costrette a condividere gli stessi spazi di mucche capre e cavalli. Batteri e parassiti di questi ultimi iniziarono quindi a infestare le renne.
Tutto questo ebbe come conseguenza il dilagarsi di un’epidemia di brucellosi che colpì dapprima il bestiame (riducendolo nel luglio del 1996 da 1’400 capi a 400) e successivamente gli stessi Tsaatan che, a causa di un generale impoverimento (mancanza di compratori di pelli e di corna) avevano iniziato a mangiare la carne delle bestie morte. Fu necessario l’intervento della croce rossa e di organizzazioni internazionali per debellare l’epidemia e ristabilire l’ordine.