PILLOLE Uzbekistan 

 
Se volete provare l’ebbrezza di avere una valigetta piena di mazzette questo è il paese giusto. La banconota più utilizzata vale 0,23€. (La più alta vale 1,15€ ma è poco diffusa)

Quando direte che siete italiani, nessuno dirà “spaghetti o pizza” ma intonerà le note di Totò Cutugno “lasciatemi cantare”

Se al ristorante ordinate una bibita o un succo di frutta vi portano la bottiglia da 1,5 Lt 

I limoni sono arancioni

Il pane è come una ciambella senza buco 

 

Sono arrivate le biciclette 

I bagni al di fuori delle città sono buchi nella terra maleodoranti e pieni di mosche. Scordatevi l’acqua 
  
Le campagne sono ancora coltivate a braccia. 
Le macchine danno la precedenza ai pedoni (Impensabile dopo l’Iran!)

I serramenti che vanno per la maggiore hanno i vetri scuri/specchiati blu. Anche negozi e ristoranti optano per questi, così non si capisce mai se un posto è aperto o chiuso.

  
Le donne per ripararsi dal sole usano l’ombrello.

Le tombe del periodo sovietico non hanno nessun simbolo religioso.

Uno dei più grandi divertimenti/attrazioni delle città sono le fontane con getti d’acqua che vanno a ritmo di musica e con luci colorate
 

Alti e bassi

Alcune parti dei fili di seta prima della tintura vengono isolati per fare in modo che non si colorino
Partiamo di mattina presto – solita colazione bomba con due uova fritte – perché vogliamo raggiungere Fergana entro sera. Mai avremmo pensato di arrivarci veramente di sera. E tardi.  

 

Il nervosismo e la stanchezza ormai sono a fior di pelle, litighiamo e alziamo la voce con due tassisti, con il cameriere, con il consierge dell’albergo assolutamente fuori budget – nel quale però stremati a mezzanotte decidiamo di prendere una camera – e crolliamo in un sonno profondo.

 

Il giorno dopo come per magia la solfa cambia. Abbiamo finito i soldi, e dobbiamo riuscire nell’impresa titanica del prelevamento di dollari. Un signore ci dà un passaggio (a gratis!) senza chiederglielo, la banca sputa i verdoni senza battere ciglio, il bus si ferma davanti ai nostri piedi e ci lascia davanti all’albergo, il tassista che ingaggiamo per andare alla fabbrica di seta è simpatico e la famiglia francese che incrociamo in mezzo alle donnine che lavorano a mano ci chiede se vogliamo andare al confine con il loro furgone Mercedes camperato. Boccata d’ossigeno.

  

Bozzoli di seta di seconda qualità. Verranno impiegati per fare i tappeti
          

Attraversiamo la valle di Fergana, famosa per la seta e le splendide maioliche. Distese di campi verdi di cotone e gialli di grano appena mietuto dove donne e uomini lavorano – di trattori non se ne vedono molti – mentre i bambini giocano e si bagnano nei canali di irrigazione. Intorno mucche, capre, cavalli e cammelli pascolano pacificamente.  
    

Dopo l’ennesimo posto di blocco e controllo di passaporti troviamo una bettola a qualche centinaio di metri dal confine Kirghiso e mangiamo un’anatra a dir poco squisita. Dormiamo sulle panche del ristorante, ma l’indomani mattina un altro intoppo. È misteriosamente sparito un nostro portafoglio (con solo patente e bancomat) e altrettanto misteriosamente è riapparso nelle mani di un signore che chiede la “gentilezza” di una ricompensa. 

Alcuni vicini di casa capiscono che c’è tensione e ci portano delle mele, delle sedie in plastica e un tavolino quando vedono che stiamo improvvisando una colazione sotto un albero, ma nonostante questo la voglia di farsi mettere un timbro ed entrare in un altro stato è forte, come il colpo che i favolosi piatti enormi di ceramica uzbeki – presi per i 60 anni di mamma Tony e zia Nene e prossimi ad una spedizione DHL – hanno preso. 

  

Samarcanda

Shah-i-Zinda, un viale di mausolei

Siamo nella città che chiunque almeno una volta nella vita ha sentito nominare, anche se poi magari non saprebbe collocarla su una cartina vuota. La città che fu il fulcro del commercio tra oriente e occidente, dal sapore esotico e lontano. 
Peccato che per noi inizino ad essere giorni duri, stancanti. Il caldo torrido non molla neanche al calare del sole – ormai è quasi un mese che siamo di media sopra i 40 – e le cupole, i minareti, le maioliche e i ghiri-gori non riescono più a stupirci come all’inizio.   

Registan

Moschea di Bibi-Khanym
  

Vagabondiamo per la città, macchina fotografica al collo e cartina alla mano, guardiamo mattoni e mausolei ma sogniamo alberi e montagne. 

A risollevarci il morale impolverato l’incontro casuale al ristorante con Marloes e Finbar- la coppia di olandesigià conosciuti in Turkmenistan e che speriamo di rivedere in Cina tra un mesetto – con cui passiamo poi la mattinata al bazar senza troppe ambizioni turistiche.
              

Poi ci guardiamo negli occhi e senza bisogno di molte parole la decisione è presa. 

Ce ne andiamo. 
Il nostro visto per il Tajikistan inizia purtroppo tra 10 giorni, quindi ci dirigeremo verso il Kirghizistan (per il quale non abbiamo bisogno di nessun tipo di visto), dobbiamo temporeggiare. 

Imbukhati 

 

Musica. Tamburi. Trombe. Per le vie del centro di Bukhara questo ritmo è ammaliante come il canto delle sirene, e noi lo seguiamo. 

Tre bambini vestiti in velluto sui trampoli, persone che sorreggono dei cuscini ricamati, gente vestita a festa e noi corrucciati che cerchiamo di capire a cosa stiamo assistendo. 

“Wedding party!” Dice la signora vestita in azzurro, ma la figlia la corregge: “Engagement party!”

   


In men che non si dica veniamo invitati ad entrare nel cortile interno dell’hotel e a sederci ad uno dei tavoli imbanditi mentre un centinaio di occhi e altrettanti denti d’oro seguono attentamente ogni nostra mossa. 

 

Al nostro tavolo il ghiaccio viene subito rotto dal signore pelato che riempie le ciotoline di vodka e dalla signora che non sapendo l’inglese continua a dirci “I love you”. 

Spasiba babüska, anche noi ti amiamo già, allora via con i festeggiamenti in onore degli sposi!! 

“Ma dove sono? … Ah, lo sposo non c’è.  E la sposa è di sopra ma non scende”…. “Questa è una festa per parenti e amici, è una delle tante che si terranno fino alla data effettiva delle nozze!” 

  

Il tavolo di uomini alla nostra destra rimane indifferente alla musica (ancora per poco) mentre tutte le donne tra una portata e l’altra ballano in mezzo al cortile. Per non essere da meno facciamo come loro, Anna in pista e Marco “nasdarovia” a più non posso. 

Tutto il resto è pura delirante poesia.

   

Le donne mentre ballano danno delle banconote alla ballerina, appena gli uomini si alzeranno daranno banconote a tutte le donne (totale guadagnato 7000 som, piu o meno 1,50€)
  

La ballerina della festa
 

   

Ah, ecco alcune foto della città!

Minareto Kalon (1127d.c) e sullo sfondo la cupola azzurra della Medressa di Mir-i-Arab
Medressa di Nadir Divambegi (1622d.c)
Mausoleo di Ismail Samani (905d.c.)

Un tuffo al cuore (e nel mare)

Contrattazioni su contrattazioni, una guerra all’ultimo dollaro, ma alla fine ci siamo. Questa la squadra in partenza per l’Aral sea, o almeno per quello che ne resta: i due baschi incontrati a Khiva -Ivan e Ales-, Vladimir in tenuta mimetica e un crocifisso d’oro al collo, la sua Uaz e noi.  
   Munyak è il punto di partenza: un villaggio di pescatori in mezzo al deserto. 
Il cartello di benvenuto con il disegno di un pesce, le ringhiere in ferro con le sagome delle ancore, l’atmosfera rilassata e i colori delle case farebbero presagire di essere in una città portuale ma (laddove) dove la vista dovrebbe essere ripagata e rinfrescata dal blu del mare si perde a vista d’occhio una distesa polverosa di arbusti secchi e vecchie navi arrugginite. 
 Impotenza e incredulità. Il vano tentativo dell’uomo di sopraffare la Natura ha la faccia di un disastro ecologico di enorme portata. 

Iniziamo a percorrere gli ormai 180 km di sterrato che separano il villaggio dal mare senza la minima idea di quello che ci aspetta. (Abbiamo smesso da un po’ di guardare immagini su google per non rovinarci la sorpresa)
Nel primo tratto in mezzo al nulla e nel bel mezzo di una tempesta di sabbia si distinguono in lontananza trivelle e le fiammate di sfogo delle centrali di estrazione del gas. Man mano che avanziamo l’orizzonte si fa ampio, migliaia di conchiglie sul suolo e davanti a noi un’immensa falesia – un tempo scogliera – sopra la quale si estende l’altopiano dello Urtyurt Plateau che arriva fino al Caspio. 

Vladimir impone una pausa degna di questo nome: cetrioli pomodori e vodka! (Kuçuk kuçuk !!)

 Dopo altri 80km – e qualche imprevisto – finalmente lo vediamo; azzurro, sopravvissuto e indomito.  

       

 Il vento batte forte e i granelli di sabbia sono spilli ma la tentazione è troppo forte. Via i vestiti e lasciamo che l’acqua salatissima ci tenga a galla come tappi di sughero.    Siamo solo noi, km e km di nulla nessuno. Mangiamo sardine in scatola e beviamo vodka, sopra di noi un mare di stelle.