PILLOLE Giappone

Toilette pubblica nella stazione dei bus di Osaka

La carta igienica si butta nel wc (era dall’Italia che non lo facevamo) 

Nei bagni ci si siede sempre, anche quello della stazione o quelli pubblici delle metro. Sono sempre puliti. 

L’asse del gabinetto è riscaldata ed è forse questo il motivo del punto due. 

Nei bagni “alla turca” invece ci si accuatta al contrario, generalmente con la faccia verso il muro. 

Ovunque si trovano distributori di lattine di bevande freddo (tasto blu) e bevande calde (tasto rosso)
 

Prendere e dare i soldi con due mani, in segno di rispetto

Nei ristoranti l’acqua del rubinetto è gratis 

I cuochi usano un asciugamanino a mo’ di fascia/bandana 

 

Quando si mangiano i ramen, è buona educazione fare molto rumore risucchiandoli. Inoltre, è una tecnica utile per raffreddarli!

Fuori da ristoranti (ramen e pasti veloci) oppure onsen (e alcuni hotel) ci sono delle macchinette dove fare un ticket decidendo e pagando quello che si vuole mangiare. Poi si entra e si consegna il bigliettino. 

Se non sapete leggere il menù, nessun problema. Fuori da ogni ristorante ci sono sempre delle riproduzioni dei piatti molto veritiere! 


 

Nei locali ci sono spesso ceste/scatole per mettere borse giacca etc 

Il sake viene versato in un bicchierino e fatto traboccare nel piattino sottostante. Finito di bere dal bicchiere, si può bere direttamente dal piattino o rovesciarlo nel bicchiere.

Da 7eleven si può prelevare con circuito internazionale. (Non è così semplice trovare bancomat per stranieri)

Fare l’inchino è una cosa molto comune per dire sì, grazie, scusi etc. Anche i cartelli stradali hanno disegnato un omino che si inchina, probabilmente è il nostro “ci scusiamo per il disagio” 

Sulle scale mobili di Tokyo si sta a sinistra, ad Osaka si tiene la destra. 

Le finestre delle case sono scorrevoli. 

Le porte scorrevoli automatiche alle volte hanno un pulsante da schiacciare per farle aprire 

In ascensore, il primo piano è quello che noi chiamiamo piano terra, il secondo è il nostro primo e così via 

Nelle case, molte volte le lampade al soffitto si accendono tirando la corda 

La verdura e la frutta sono vendute al pezzo. E che prezzo! 

Due papaie 6400yen-55€ circa. E pensare che questa foto è stata scattata a Okinawa, ai tropici e in stagione!
 

Se una parola inglese finisce con una consonante, è praticamente impossibile che un giapponese la pronunci senza aggiungere alla fine una “o” e raddoppiando la consonante. (Lot=lotto)

 

Sono inoltre comuni errori nelle insegne: hamburg, restrant e così via 

Sull’autobus si paga quando si scende 

Le biciclette possono circolare sui marciapiedi 

Per agevolare la riuscita del parcheggio – che viene fatta sempre in retromarcia – ci sono dei blocchetti di cemento che stoppano le ruote

Tutti i barbieri hanno all’esterno una “colonna rotante” blu rossa e bianca, come in America

 

A Kagoshima si mangia il pollo crudo 

L’unica cosa che i giapponesi sanno in italiano (senza molte volte sapere che sia italiano) è “Buono buono!” puntando il dito indice sulla guancia, come noi facciamo con i bambini. (non abbiamo mai scoperto il perchè!) 

Compagnia di naviganti e sognatori

 

Il villaggio di Kura conta trentaquattro anime. Per una fortunata coincidenza autostoppistica noi ne abbiamo conosciute due, Yoshi&Akemi. 

Passeremo le nostre ultime giornate sull’isola di Ishigaki a casa loro, testimoni del ritmo lento e produttivo che dà vita al “sabani”, l’imbarcazione tradizionale dei pescatori di Okinawa. Mentre Yoshi e i suoi due aiutanti armati di scalpello lavorano travi di legno, Akemi fà magie in cucina deliziando ogni intervallo con cibo di ispirazione indiana e sfruttando tutte le erbe del giardino, ma appena fiuta l’occasione di imparare una ricetta italiana ci spalanca le porte della cucina. 

In cucina con Akemi
La preparazione degli gnocchi di zucca
Akiko felice del pranzo italiano! Gnocchi di patate al pomodoro e gnocchi di zucca al burro e rosmarino
Ananas, crèpes con marmellata e succo di finocchietto selvatico
 

Sono trascorsi ormai cinque anni dal giorno in cui Yoshi bussò alla porta del mestro Arashiro di Ishigaki, già ottantenne, e depositario della tecnica della costruzione del sabani. Da quel giorno le due passioni di Yoshi, il legno e il mare, si sono unite ed è iniziata la sua nuova vita. Ci racconta di come sia sempre stato affascinato dal legno mentre ci mostra il tamburo scolpito durante uno dei suoi soggiorni in India, a Rishikesh, nella stessa scuola in cui Hiro (che coincidenza! È stato Hiro a farci assaggiare le vipere a Iriomote) ha imparato a fare i deejiridu. 

 

Il sabani è interamente costruito in legno, non vi è alcuna parte metallica – nessuna, nè viti nè chiodi- e la sua tecnica di costruzione varia leggermente da costruttore a costruttore ed ha subito alcuni accorgimenti nel corso del tempo. 

 

Un tempo costruiti utilizzando solo il pan’noki (albero del pane), ora sono un mix di diversi legni: il sughì (cedro rosso giapponese) per lo scafo e per l’albero, il terihaboku (calophyllum inophyllum) – estremamente duro e resistente – per la base dell’albero. 

In sostituzione dei chiodi, clessidre di inumaki (podocarpus macrophyllus, “chaghì” nella lingua locale) impediscono il distacco dei pezzi assemblati, mentre dei “ganci” di bambù, grazie alla loro elasticità, impediscono il movimento laterale. 

La fase di inserimento della “clessidra”
Yoshi all’opera
 

I remi, competenza di Akiko e Kimi, sono leggeri e resistenti, caratteristiche tipiche del maruba (ehretia dicksonii hance, “zakughi” in lingua locale) 

Akiko
Kimi
 

Yoshi ci confessa però di voler tentare la costruzione di un sabani con il solo legno dell’albero del pane nel prossimo futuro. Ci fa vedere inoltre una foto di un sabani degli anni ’60 e ci fa notare il colore nero delle vele. Se quelle di oggi sono di tessuto sintetico, un tempo erano di cotone imbevuto nel sangue di maiale – per questo il colore scuro – per rendere la trama più fitta e offrire maggior resistenza al vento. 

Fino a pochi anni fa vi erano solo due maestri a continuare la tradizione: Arashiro ad Ishigaki – ormai in pensione – e Itoman a Okinawa – sessantenne ed ancora in attività -. La rinascita dell’amore per quest’arte ha fatto si che ad oggi i sei discepoli di Arashiro – tra cui Yoshi – e sempre nuovi allievi di Itoman perpetuino questa antica tecnica. 


Tropicalizzati

Yaeyama Palm

Con occhialini e pelle d’oca ci immergiamo nell’acqua. L’apnea intermittente ci regala spezzoni di un film muto in cui pesci colorati fluttuano tra grossi cervelloni ocra, ma quando il serpente zebrato (mortale, ma pare non aggressivo) si insinua nella scena, le oniriche visioni subacquee lasciano il posto ad annaspanti boccate in cerca di terraferma. 

La spiaggia di Yonehara

 

Su questa stessa spiaggia il nostro vicino di tenda Harry ogni sera all’ora del tramonto e in solitudine intona canzoni popolari malinconiche, nella antica lingua di Okinawa.

Siamo a Yonehara, nel nord dell’isola di Ishigaki, meta perfetta per il diving e ad un passo dalla meravigliosa baia Kabira. 

Kabira Bay

Con la bassa marea il reef diventa un campo di raccolta di alghe e conchiglie
 

L’atmosfera è di quelle che ti fanno dimenticare di orologio e calendario, ma c’è qualcosa che ci spinge verso quel dito sottile che indica nord. A Kura c’è una spiaggia che guarda perfettamente a ovest, e da lì vogliamo guardare il tramonto questa sera. 

Ormeggiate a pochi metri dalla riva, due imbarcazioni fuori dal tempo attirano la nostra attenzione, ma questa è un’altra storia e un altro articolo….

 

Arroccato sopra la spiaggia, il nostro hotel a cinque stelle: un prato, bagni e docce, e un gazebo con tavolo e sedie. Non un campeggio ma un ristorante che non aprirà fino alla fine del mese
Il “granchio del cocco”, un notturno vicino di tenda
Il faro di Hirakubo
 

Il richiamo della giungla

La tempesta in arrivo da ovest

Questo vento non è forte come quello del deserto Taklamakan, vero?”
Cerchiamo di rassicurarci sulla tenuta della nostra tenda mentre nel cuore della notte pare che qualcuno abbia direzionato un idrante e una macchina del vento contro di noi. Il frastuono dello scroscio ci impedisce di parlare a bassa voce.

Quando finalmente si fa mattina veniamo sorpresi da uno strano grido: “Uuuuuuuhuuuuuuuuuuuu”

“Ma questo secondo te è un bambino?

Scopriremo poi che siamo nel pieno della stagione delle piogge – meno male non quella dei monsoni – e che l’urlo dalle curiose scale melodiche è il richiamo del piccione verde che si sposta mimetico nella giungla. Ma non è l’unica nostra sveglia: con le prime luci dell’alba echeggia una risata sonora, con un lieve accento diabolico e una scarica di mitragliatrice. È il martin pescatore, che vola veloce e sicuro effettuando millimetirche traiettorie a filo di rami stile stukas, arrivato in questi giorni sulle isole lungo la sua rotta migratoria. Anche i corvi si guardano bene dal farsi trovare sulla sua strada: quel ghigno e soprattutto quel becco non perdonano.

Il “martin pescatore rugginoso”, “akashobi” in giapponese

Il passaggio dalla città alla selvaggia isola di Iriomote è stato breve come un battito di ciglia. All’inizio, allarmati dal pericolo della vipera e di altri serpenti che infestano l’isola, facevamo fatica a camminare scalzi. Ma altrettanto breve è stato l’adattamento alla mancanza di elettricità e all’esplosione di natura.

Il “serpentario crestato”, il rapace specializzato nella caccia ai rettili

Accendiamo il fuoco e mentre facciamo bollire l’acqua per il tè, con farina e acqua prepariamo del pane. Solita partita a backgammon e poi inizia la giornata: la spiaggia è lunga, selvaggia, una lingua oro e ruggine tra il verde e il turchese.



Approfittiamo della bassa marea e sotto la guida silenziosa e sorridente di Kaneco scaviamo nel bagnasciuga in cerca di vongole. Lui le prepara con sake e aceto, noi olio e aglio e ci condiamo gli spaghetti. Nell’acqua invece raccogliamo il “mosuku” – un alga marroncina e viscida – e non avendo minimamente idea di che farne, prendiamo spunto dal nostro maestro: ginger e salsa di soia. Oishi! (delizioso in giapponese)

Kaneco-san il giorno della partenza

 

Dal campeggio di Haemida Beach, ci spostiamo verso la parte settentrionale dell’isola, percorrendo a tappe e in autostop l’unica strada costiera.

Camminata tra le mangrovie con la bassa marea per proseguire poi nel sentiero che conduce alla cascata Pinaisara(sullo sfondo)

Il “saltafango”

La cascata Pinaisara (55mt)
Spiaggia Tsukigahama, sulla costa nord ovest
La baia di Sonai

Abbiamo portato solo l’indispensabile nello zaino, faremo infatti tre notti di free-camping prima di intraprendere il trekking in mezzo alla giungla che taglia l’isola da nord a sud. Il sentiero è ben segnalato con dei nastri fuxia, ma pare che parecchie persone si siano perse e per questo è necessario recarsi all’ufficio di polizia per ottenere un permesso. Prendiamo la prima imbarcazione delle 9.30 che risale il fiume Urauchi che si addentra nella foresta e in mezz’ora arriviamo all’inizio del sentiero. Da qui per otto ore saremo immersi in una vegetazione fittissima intermezzata da cascate e guadi, mangrovie e fango, circondati da mille farfalle e accompagnati da lucertole dalla coda blu o dalla pancia gialla, rane saltellanti e fortunatamente nessun serpente velenoso.

Risalendo il fiume Urauchi
La cascata Maryiudo



Io sono sulla foglia giusta e tu non mi vedi, vero?
La vista della foce del Nakama ci fa capire che siamo quasi arrivati
 
Ritornati al campeggio, la rudimentale vasca da bagno (costituita da un barile di latta sopra un fuoco a mo’di pentolone dei cannibali) e la cucina spartana ci sembreranno a dir poco un lusso..

Vipere alla griglia. Tra gennaio e aprile ci pensano i tagliatori di canna da zucchero a ridurre la popolazione di serpenti velenosi (gli atri infatti vengono risparmiati): quando la lama dei loro macheti incontra la lingua biforcuta, un taglio netto recide la testa e con essa il veleno, il resto finisce alla griglia.

Altri giorni di relax alla Robinson Crusoe e poi, in perfetto stile di quest’isola, un pipistrello – grosso come un bambino di due anni – appeso su un ramo a testa in giù a qualche metro di distanza ci osserva mangiare un po’ di sashimi sulla panchina del porto, la notte prima di imbarcarci per Ishigaki.

La notte nel campeggio di Haemida Beach

Di onsen in onsen 

Seiryuusou onsen, prefettura di Kikuchi, Kyushu

Il vero fiore all’occhiello del viaggio in Giappone, nonché sottile linea rossa che ha tracciato il nostro itinerario da nord a sud, sono stati gli onsen. 

Queste sorgenti termali sono sparse per tutto il Paese ed andarci è un’abitudine radicata e popolare, per nulla elitaria. Il prezzo può oscillare dal gratuito per gli onsen più spartani a 1300 yen (10€) per quelli più grandi e ricercati, dotati magari di un rotenburo (vasca all’aperto) con vista panoramica. 

 

L’onsen prevede solitamente un ingresso (dove vengono lasciate le scarpe in appositi armadietti) e due aree separate per uomo e donna all’interno delle quali vi è uno spogliatoio con armadietti e ceste, lavandini, bilancia e asciugacapelli. Da qui si accede all’onsen vero e proprio (l’uso del costume da bagno è assolutamente vietato): entrando ci si munisce di sgabello e scodella e ci va a sedere di fronte a una postazione dotata di rubinetto, doccino e shampoo. Il lavaggio è generalmente molto accurato, ci si strofina energicamente con un asciugamanino – lo stesso che poi viene piegato e appoggiato sulla testa per entrare in acqua e con il quale ci si asciuga prima di rientrare nello spogliatoio – e può prevedere depilazioni con rasoio, lavaggio di denti e tutto ciò che si farebbe a casa propria. La struttura di solito mette a disposizione shampoo e bagnoschiuma, ma generalmente ognuno arriva munito di un cestino di plastica con i propri prodotti.

Classico ingesso all’onsen: in questo caso uomini a sinistra e donne a destra
Lo spogliatoio del Seiryuusou Onsen
 
 

Finito il lavaggio e eliminata ogni traccia di sapone inizia l’immersione nelle più svariate combinazioni di vasche d’acqua a varie temperature, vasche idromassaggio, saune e vasche ghiacciate. Gli onsen più autentici e vecchi però sono un’esperienza totalmente diversa.

Il Takegawara, l’onsen più vecchio di Beppu Onsen (1879) all’interno del quale è possibile fare anche i bagni di sabbia: con indosso un kimono di cotone, si viene ricoperti di sabbia calda per una decina di minuti

Se finite in paesini come Nozawa Onsen o Beppu Onsen, gli onsen non sono altro che un’unica sala dove vi spoglierete prima di sedervi in terra tra un rubinetto di acqua – alle volte fredda- e la vasca di acqua termale. Nati per permettere alla gente senza bagno in casa -cosa tutt’ora non così rara- di lavarsi, offrono un’atmosfera semplice e di condivisione lungi dalla mondanità dei rotenburo più rinomati. 

Piccolo onsen gratuito nel villaggio di Myoban, sulle colline dietro Beppu Onsen, dall’acqua super acida.

A chiudere il rituale dell’esperienza è la sala relax – che non si trova però ovunque – dove distendersi sul tatami e godersi uno dei sonni più riposanti che abbiate mai sperimentato. Spesso e volentieri sono presenti anche poltrone massaggio se non un vero massaggiatore. Avendo viaggiato in inverno e campeggiato ovunque, questi bagni pubblici sono stati la nostra salvezza e coccola quotidiana!

La sala relax di Dogo Onsen, Matsuyama. Per ironia della sorte, questa è stata l’unica volta che non ci hanno fatto dormire. Dogo Onsen è molto famoso e richiama un sacco di turisti. A nostro parere, uno dei peggiori!



Ecco una selezione degli Onsen più belli dove siamo stati:

  • Koikawa Onsen (Moiwa, Hokkaido) dalle acque ferrose e torbide.
  • Goshiki Onsen (Annupuri, Hokkaido) niente fronzoli, con due vasche interne e un rotenburo dalle acque quasi ustionanti.
  • Takegawara Onsen (Beppu Onsen, Kyushu) con un’unica vasca ma dall’atmosfera affascinante.
  • Seiryuusou Onsen (Kikuchi, Kyushu), piccolo e raccolto rotenburo dalle acque oleose.
  • Tamatebako Onsen (Ibusuki, Kyushu) con un rotenburo dalle acque salate e con vista sull’oceano e sul vulcano Kaimondake.

Nb: è vietato scattare fotografie, siamo riusciti a farne qualcuna solo in quelli in cui eravamo soli! 

Non solo sushi e geishe (parte seconda)

Impossibile raccontare per filo e per segno tutto quello che abbiamo vissuto percorrendo i 1400 chilometri che separano Tokyo da Kagoshima, ma ci siamo sentiti in un vortice fortunato. Spostandoci in autostop e campeggiando in qualsiasi fazzoletto d’erba ci si presentasse innanzi – e avendo avuto di conseguenza poche occasioni per impigrirci – abbiamo girovagato con e senza una meta precisa per più di un mese. 

  

Guidati da amici di amici o da persone appena conosciute abbiamo avuto modo di pedalare in una primaverile e magnifica Kyoto, di assistere al festival del fuoco a Nara, di dormire in una stanza tradizionale a casa di una famiglia che ci ha letteralmente raccattato sulla strada e di essere accompagnati dalla stessa  l’indomani sul monte Koyasan (uno dei luoghi più sacri del buddismo giapponese), di perderci nei quartieri più autentici di Osaka, di unirci ad escursioni intorno alla caldera del vulcano Aso e di ammirare salamandre e cavallucci marini con una famiglia prima di scalare il perfetto e conico vulcano Kaimondake.

Kyoto, pagoda del Senso-ji
 
Kyoto, per le vie del centro
     
Kyoto. Prugni in fiore all’interno del giardino del tempio Kitano Tenman-gu
    
  
Prove di una danza tradizionale eseguite al ritmo di battito di mani
  
Tetsuya, nella memorabile serata tra le isakaye di Kyoto
  
Foglie di cavolo con soia e sperma di pesce fritto
  
Kyoto, la foresta di bambù di Arashiyama
      

Nara, tempio buddista Todai-ji
   
Il parco pubblico di Nara (nostra dimora per tre notti), abitato da cervi tutt’altro che timidi.
  
Otaimatsu: questo il nome dell’evento che si tiene sui balconi del Nigatsu-do (un edificio facente parte del tempio Todai-ji). Appena dopo il tramonto vengono portate in sequenza da una parte all’altra del balcone una decina di enormi torce che bruciando provocano una pioggia di braci e zampilli la cui visione, secondo la credenza, porterebbe fortuna per il nuovo anno.
        
Sul balcone del Nigatsu-do, aperto al pubblico dopo aver spento le torce
 

Okunoin, il più grande cimitero di tutto il Giappone, nel complesso monastico sul monte Koyasan
    

Osaka
   
Osaka, con Rie in un piccolo bar che colleziona e appende i reggiseni delle avventrici
   

Il castello di Himeji
Il ginko millenario di Aso
Il vulcano Aso

Il monte Komezuka
   

     
          

Santuario Kamafuta (letteralmente”coperchio di pentola”). Secondo la tradizione è di buon auspicio riuscire a camminare con un coperchio in equilibrio sul capo dal Tori (tipico ingresso dei tempi scintoisti) al Jinjia (il tempio vero e proprio)
    
Kaimondake (924 mt). Chiamato il “piccolo Fuji” per la perfetta forma conica.
   

La vista dalla cima del Kaimondake
 
 

Non solo sushi e geishe (parte prima)

 

Nei due mesi centrali del nostro lungo e inaspettato soggiorno in Giappone – un intermezzo tra la neve di Hokkaido e le acque tropicali di Okinawa – siamo riusciti a sfatarne dei miti e scoprirne di nuovi. Lungi dall’essere un paese ipertecnologico e avanguardista – a parte per le toilette futuriste – ci ha lentamente conquistato e fatto sentire un po’a casa, perché nonostante le due culture siano agli antipodi, c’è una sottile somiglianza al Bel Paese e al suo stile di vita. Diciamocelo, ai giapponesi piace mangiare, bere e stare in compagnia. Che poi abbiano una gentilezza innata e un’onestà fuori dal comune ha reso il tutto molto più facile. Senz’altro schemi più rigidi regolano le relazioni interpersonali, soprattutto nel mondo del lavoro, e non è raro assistere a congedi ricchi di inchini, ma in quanto stranieri e turisti questo non è stato altro che un dettaglio pittoresco.  

 

Abbiamo lasciato l’isola di Hokkaido e siamo sbarcati al porto di Nigata, sulla costa occidentale. In compagnia dei nostri due amici canadesi Tay e Jake abbiamo noleggiato una macchina, direzione Tokyo.  

  

Ci siamo fermati campeggiando due notti nel paesino di montagna Nozawa Onsen, un villaggio con ben tredici bagni pubblici gratuiti. Tre immersioni quotidiane ci hanno permesso di mantenere una piacevole temperatura corporea durante il nostro vagabondare.

L’ingresso di uno degli onsen. Nella cassa di legno sulla destra, è possibile mettere le proprie uova affinchè si cuociano !
       
La vista al risveglio
  
Jigokudani Monkey Park
 

Quando siamo arrivati sotto il monte Fuji, con un tempo talmente infame che ci impediva persino di capire da che parte avrebbe dovuto svettare, prima che montassimo la tenda un vento miracoloso ha spazzato via nuvole e neve e dopo poco siamo riusciti a vederlo in tutta la sua bellezza.  

      

 
A Tokyo ce la siamo spassata tra un locale e l’altro, di sera, mentre di giorno – con una mano sul cuore e una sul portafoglio – dopo un’estenuante ricerca abbiamo comprato due nuove lenti per la macchina fotografica e sostituito un iPhone. Per il resto è esattamente come ce l’aspettavamo: immensa e brulicante di persone affaccendate.

        

Il barista segue indicazioni per preparare un Negroni
  
Uno dei microscopici locali del quartiere Golden Gai, dove si entra, si beve e si esce.
   
Sushi bar
 

Uno scorcio di una bancarella nel mercato del pesce
      
Affilatura di coltelli sempre nel mercato del pesce
     

       

Fioritura dei prugni nel Yoyogi Park
  

Visto il continuo posticipare la partenza e il conseguente scadere del visto, abbiamo dovuto con piacere volare ad Hong Kong dai nostri amici Cata e Adriana, occupare il loro salotto per una settimana e farci viziare prima di ritornare a viaggiare in terra nipponica. 

   
  

Lungo la camminata nel Lantau Country Park, perchè Hong Kong non è solo grattacieli!
  
  
Tian Tan Buddha
  
Vista della città da sotto il Kawloon Peak
    

Kowloon Night Market  
     
 

Lola

 

Il ritornello della canzone dei The Kings risuona nelle nostre teste dopo che così, quasi per scherzo, il nostro camper è stato ribattezzato.

Looo-laa L.O.L.A looo-laa 

Tay

Finestrini abbassati nonostante le temperature e si parte. Verso Nord. Più esattamente Rishiri Island. All’inizio non ne sapevamo pronunciare nemmeno il nome – era stato un consiglio dato all’ultimo dall’amico giapponese Ibasan – ma il fascino suscitatoci da questo vulcano in mezzo al mare ci ha spinto a correre giorno e notte lungo una strada costiera spazzata da neve e vento e riparaci per un breve riposo nel porto di Wakkanai in attesa del traghetto.

      

Scott
   

Jake
   
   

“Se il tempo non è dei migliori però ve la sconsiglio” era la seconda parte del suggerimento, ma a noi non era interessato ascoltarla. La sete di avventura era ormai tornata, troppo tardi per dubbi e ripensamenti, mettiamo le pelli e iniziamo a salire. Lo scricchiolio della neve sotto gli sci è l’unico rumore udibile nel primo tratto in mezzo al bosco ovattato, e in fila come formiche colorate risaliamo il morbido pendio ai piedi di svettanti secolari abeti.

     

Colton
  

Pep
 
Bryan

 
Pete
Appena usciamo dal limite del bosco, che più che altrove segna il limite della sopravvivenza, tutto cambia: il vento che soffia senza tregua dalla Siberia – e che lì non riusciva a penetrare – porta con sè nubi dense e veloci e un gelo che attacca le palpebre. 

  
  

   
Ed eccoci lì, in quello che più ci fa sentire vivi, a contemplare la tempesta di neve in arrivo dall’oceano, a godere e ridere guardandoci intorno increduli e presenti come non mai in quell’attimo prima che la tempesta ci inghiottisca.  

Looo-laa L.O.L.A looo-laa 

    
     

Esattamente così siamo stati accolti sull’Asahidake e Tokachidake, ma ogni volta abbiamo voluto sfidare il freddo per poi ritrovarci esausti a fine giornata in quello che rende ancora più unica l’esperienza invernale in Giappone: l’onsen. Qui ci siamo viziati ogni sera, sguazzando nelle pozze di acqua bollente a volte sotto una fitta nevicata, altre ancora contemplando le stelle.

 
    
  

  

Sciare di notte, saltare i paravalanghe o i bordi dei marciapiedi, giocare a carte, cibarsi di snack ad ogni “convenient store”, ridere e ancora ridere. Una settimana indimenticabile.

Looo-laa L.O.L.A looo-laa 

   
    
    
  

La isla bonita 

Monte Yotey

Hokkaido, finalmente. Tre navi per un totale di sessanta ore in mare in quattro giorni, uno stop over di 24 ore in Korea (dove abbiamo dormito in una scuola di inglese), e tante tante onde. Abbiamo infatti imparato che l’inverno è la stagione del surf nel mare giapponese settentrionale e il viaggio verso nord è rinomato per non essere adatto a chi soffre di mal di mare.

Ma eccoci qui, nella mecca della powder, desiderosi di metterci gli sci ai piedi e, udite udite, di lavorare. Dopo tanti mesi di spostamento ci voleva una pausa e un ritorno ad una pseudo-normalità. L’idea era quella di ripartire con l’inizio dell’anno nuovo ma quello che abbiamo vissuto è stato cosi coinvolgente che malinconicamente abbiamo lasciato quest’isola solo a metà febbraio.

Ma andiamo per ordine.

Workaway è un sito di work exchange, ovvero si lavora part time in cambio di vitto e alloggio. Generalmente si tratta di famiglie o piccole realtà che hanno bisogno di una mano per fare dei lavoretti, noi siamo capitati invece con Scott Walker, il genio del male che gestisce più attività (ristoranti, bed&breakfast, scuola di sci etc..) sfruttando la manovalanza a costo zero che, attratta e acciecata dalla possibilità di sciare la neve più soffice del globo (oltre a vitto e alloggio si ha anche uno skipass a turno), si reinventa una professione improvvisandosi carpentiere, muratore, imbianchino, cameriere, chef, autista, addetto alla pulizia e così via. Nel clou della stagione saremo stati una cinquantina di “volontari”, sparpagliati in diverse sistemazioni. Australia House, il fulcro di tutto, si trova in posizione strategica ad Hirafu, un villaggio alla base delle piste da sci.  

Australia House
Qui abita Scott, ci sono camere per gli ospiti paganti e in ogni angolo del sottotetto ed in condizioni di dubbia sicurezza sono stati ricavati posti letto per lo staff.
Poi c’è Forest Star, sempre ad Hirafu – ma in posizione un po’ decentrata – la casa del degenero dove lo zoccolo duro multinazionale non faceva mai scendere il tasso alcolico. Qui si sono svolte le feste più importanti ed è stata teatro di innumerevoli incidenti, jam session, atti vandalici, tresche amorose e azioni cavalleresche. Vale forse la pena ricordare tra tutte il tentativo di discesa della scale con pannello della porta della cucina a mo’ di surf. 
 

Poi ci sono le sistemazioni a Kutchan, ad una decina di chilometri da Hirafu. “Kutchan House” (la nostra), con 13 posti letto, una doccia, un wc e un solo lavandino (in cucina) con annessa mensola per spazzolini e dentifrici e “Kutchan Kitchen” così chiamata per via di una fantomatica cucina adiacente agli appartamenti per lo staff che sarebbe servita per preparare del cibo da vendere poi ad Hirafu (in un nuovo piccolo take-away proprio in fronte ad Australia House) ma che, si vocifera per assenza di permessi, non è mai entrata in funzione creando in Scott un certo disappunto per l’esubero di staff da gestire.

Kutchan house

Lo staff di Kitchan House

 Appena siamo arrivati, a fine novembre, abbiamo iniziato a lavorare di mattina in un cantiere. Una casa (quella che poi è diventata Kutchan Kitchen) che aveva bisogno di essere sistemata. Ci siamo inventati la posa in opera di un pavimento, abbiamo aggiustato serramenti e finestre, imbiancato e scartavetrato ogni angolo e da metà dicembre siamo stati spostati nel ristorante Kabuki 1 (più economico, in cui ogni tavolino ha un “teppan” e i clienti si preparano da soli la cena) e Kabuki 2 (all’interno di una grossa yurta, con due grossi “teppan” centrali dove due chef cucinano). 

Kabuki 1 e Kabuki 2
 
Staff meal in Kabuki 1
  
Okonomiyaki
 
  

La cucina di Kabuki
  
Festa di Natale in Kabuki 2

 

Oltre ad avere un pasto assicurato tutti i giorni, lavorare di sera ci ha permesso di avere tutte le mattine libere da dedicare allo sci, non solo nel comprensorio di Hirafu ma anche a Moiwa, Rusutzu e Kiroro. 

 

Peack Annupuri, con i nostri “skybuddies” Rob&Lou
   
    
   
Moiwa
  
Kiroro
  
Kiroro
  
Kiroro
   
Kiroro
       

Kiroro (photo by Rob Shrosbree)
  
Kiroro (photo by Rob Shrosbree)
    
Rusutzu
  
Rusutzu