Siamo a Ulan Bator a casa dello spezino David Bellatalla: viaggiatore, antropologo, scrittore, esperto di rock progressivo e coltivatore di basilico (tra le mura domestiche). Abbiamo appena mangiato una pasta – indovinate un po’?! – al pesto fatto in casa quando David ci fa segno di seguirlo nel suo studio.
Con noi c’è anche Luciano, architetto veneto che vive nella capitale mongola ormai da anni, amante delle moto da rally, del suo Land Cruiser 80, dell’Africa attraversata da nord a sud overland e dei suoi deserti.
Ed è proprio grazie alla scatola di Antichi Toscani dalla quale David goduriosamente sta attingendo che siamo qui, quella scatola che arriva proprio da Vittorio Veneto, dalla tabaccheria di Paolo (per chi non sapesse, il fratello di Marco) dove ad agosto Luciano scopre che nel nostro viaggio passeremo per la Mongolia: “Che mi chiamino quando arrivano!” dice a Paolo lasciandogli i contatti.
Ed eccoci qui, totalmente all’oscuro di cosa la Mongolia abbia da offrirci, senza alcuna guida e convinti di partire per fare del volontariato con la Croce Rossa nel deserto dei Gobi. Invece scopriamo amaramente che ci eravamo creati troppe aspettative concrete e, mentre David ci guida in un viaggio musicale dai primi anni sessanta ai giorni nostri all’altezza di Ezio Guaitamacchi, veniamo frullati in un vortice di proposte ipotetiche. Quando usciamo dallo studio siamo completamente confusi sul da farsi.
Il giorno dopo ribussiamo alla sua porta, lo studio è come l’abbiamo lasciato la sera prima, ma ora i nostri occhi si soffermano su cimeli e pezzi d’antiquariato inzuppati di storie e, nei racconti intrinsechi di ognuno di essi, viaggiamo nel tempo sfogliando libri e srotolando mappe di ogni parte del pianeta, come alla ricerca di un indizio, fino a che troviamo una soluzione: a fine pomeriggio David ci mette sotto braccio uno dei suoi libri (“In viaggio con le nuvole” Munkhiin Useg Editore) e con le vene colme di una dose di energia difficilmente spiegabile a parole, partiamo verso nord.
Non solo i suoi racconti ci hanno fatto sognare ad occhi aperti, ma da antropologo ha analizzato la nostra scelta di vita rassicurandoci che se questo è stato irrinunciabile, allora abbiamo fatto la cosa giusta.
Con delle indicazioni a mo’ di caccia al tesoro partiamo per Moron alle 8 di mattina con un pullman che a causa di una tormenta di neve ci mette diciassette ore (anziché dodici).
Da lì, dopo essere riusciti ad ottenere roccambolescamente il permesso della guardia di confine per recarci nella taiga (che si trova a pochi chilometri dalla Russia) ci attiviamo per trovare due posti su un fantomatico furgoncino Uaz che in altre dodici ore, questa volta non su asfalto ma su piste saltellanti in mezzo alla steppa illuminata dalla luna, ci scarica a Tsagannuurr nel gelo assoluto delle 6 di mattina.
Il viaggio è stato duro, così fuori da ogni idea di confort da essere surreale, abbracciati a sconosciuti e con i polpacci incastrati tra merce e altri polpacci, in nove su sei sedili sistemati a “salottino”, con finestrini ghiacciati e musica a tutto volume. Aggiungeteci l’ubriacone a tratti molesto che tra una tracannata e l’altra, pur di prendere una boccata di ossigeno, ogni dieci minuti mette la testa fuori dal finestrino facendo entrare aria siberiana e l’incubo è completo.
Fortunatamente tra tutti i passeggeri c’e una signora che parla inglese, Ulzi (che aveva lavorato come interprete proprio con David anni prima), cosicché quando davanti all’abitazione di Bayarhu (il nostro contatto) nessuno viene ad aprire, samaritanamente ci offre un pezzo di pavimento di casa sua, salvandoci da una possibile morte per assideramento.
Completamente vestiti – con anche il piumino – e dentro il sacco a pelo, riusciamo stremati a prendere sonno.
Quando dopo poche ore sentiamo il marito che spacca della legna e fa “partire il riscaldamento” un tepore sonnolento ci fa ripiombare nel sonno fino a tarda mattinata. Al risveglio Ulzi ci offre un tè e ci invita a passare a trovarla quando più ne avremo voglia: “You are always welcome!”. Per ultimo ci dá indicazioni per raggiungere la casa di Bayarhu.
Appena entriamo dal cancello e ci imbattiamo nel nostro uomo, ci rendiamo conto che non spiccica una parola di inglese. Siamo un po’ imbarazzati, pare non sapere chi siamo, ma ci invita comunque in casa e la moglie ci offre un tè. Sarà solo la telefonata di David qualche minuto dopo a sbloccare la situazione.

Ci assegna una casetta nella sua proprietà, la dota di un letto, di un tavolo e due sedie, una tinozza che funge da lavandino ed accende la stufa: vorremmo essere d’aiuto in qualche modo almeno per sdebitarci di tanta gentilezza, ma lui ci tratta come ospiti d’onore.

Constatiamo che qui le case sono molto essenziali. Un locale funge da salotto e camera da letto, e nei pressi della stufa a legna c’è tutto l’occorrente per la cucina, che non ha né fornelli né frigorifero né lavandino. Infatti l’acqua viene presa dal lago con delle taniche mentre il wc – in giardino – consiste in una cabina di legno con un buco al centro, una sorta di turca sospesa su una fossa che definiremo eufemisticamente “suggestiva”.
Pare che ci siano delle docce pubbliche aperte nel fine settimana, ma il nostro soggiorno a Tzagaan Nuurr non è coinciso purtroppo con questi giorni.
Tutte le case del villaggio si trovano all’interno di proprietà rettangolari, ben rinchiuse in recinti fatti di assi di legno alte due metri.
Capiremo in una delle notti successive la necessita di tale difesa: stiamo cenando quando ad un certo punto bussano alla porta. Ovviamente pensiamo che si tratti di Bayarhu e apriamo senza pensarci due volte. Tre ragazzoni (per farvi capire la mole, i mongoli vantano campioni di sumo) completamente ubriachi sono davanti a noi, forse tutto si aspettavano meno di vedere due bianchi. Uno di loro entra, gli altri due come ebeti rimangono sull’uscio inermi mentre il loro compagno che a fatica si regge in piedi sta forse cercando di capire se siamo solo un’allucinazione. Alziamo un po’ la voce ed esce come impaurito. Quando chiudiamo il chiavistello scoppiamo a ridere come matti per questa parentesi colorata della nostra serata, ma risentire dopo poco l’insistente bussare con mani pesanti come il piombo non genera altrettanta ilarità. Fanno parecchio baccano – meno male – e Bayarhu deve aver capito cosa sta succedendo e arriva tuonando scacciandoli come cani randagi. E chiude il cancello.
Parentesi. Il problema dell’alcolismo affligge questa popolazione come nessun’altra finora toccata nel nostro viaggio. D’altronde la Mongolia si sta rivelando completamente diversa dal resto del centro Asia. Lì la religione musulmana in primis e l’unione sovietica poi, hanno creato un’identità distintiva e forte.
Un popolo abituato a vivere libero, a cavallo, sul dorso di un cammello o di una renna, che segue itinerari in base ai sogni e ai messaggi che la natura fornisce, dove la morte e la malattia sono anch’esse indicazioni da ascoltare, dove lo sciamano svolge un ruolo centrale di guida e guaritore, dove tutto è rito, non puo semplicemente adattarsi al nuovo che avanza senza subire uno shock.
Queste radicate e “preistoriche” tradizioni sciamaniche e le più recenti buddiste (il peculiare buddismo mongolo ha attinto a piene mani dallo stesso sciamanesimo), si scontrano molto più violentemente con i valori che contraddistinguono il modello di civiltà del “nostro mondo”. Ne consegue, a parer nostro, un generale senso di inadeguatezza. Un po’ come già successo in altre popolazioni indigene (vedi gli indiani d’America o gli aborigeni australiani), – ma questa volta a livello di intera nazione e non di una parte segregata di questa – l’alcol risponde a quella necessità di non volere sentire fallite e superate le proprie radici.
Non è difficile vedere – in città come nei villaggi – uomini barcollanti per strada o nei mini market mentre si riforniscono di bottiglie che non dureranno più di qualche ora. E se Tzagaan Nuurr si salva dall’inquinamento di bottiglie di plastica perché l’acqua si prende al lago, quelle di vodka sono disseminate ovunque. Chiusa parentesi.

Il giorno seguente, prima di andare alla scoperta del villaggio, passiamo da Ulzi per darle un saluto e lei si offre di aiutarci per organizzare una visita agli Tsataan (gli “uomini-renna”), magari a cavallo. La prende larga ma alla fine ci espone la situazione: la caccia nella taiga è stata bandita (assurdo a pare nostro privare i nomadi di questa fonte di sostentamento) e Bayarhu, che ora lavora come guardaparco, ha dovuto applicare la legge mettendo nei guai alcuni Tsaatan, motivo per cui tra lui e i nomadi ora non scorre proprio buon sangue: una volta arrivati al campo, sarà meglio tralasciare a casa di chi siamo ospiti.
Questa situazione di “fazioni diverse” proprio non ci voleva. Mai come in questo paesino sperduto ci siamo sentiti soli e lontani, non solo per l’effettiva distanza, ma è come se avessimo perso le redini del viaggio e non fossimo più sicuri delle nostre sensazioni e del nostro giudizio.
Usciamo un po’ avviliti e proseguiamo verso est allontanandoci dal villaggio. Raggiungiamo una sommità che ci permette di vedere al di là della collina, e il cattivo umore svanisce all’istante.
Lo specchio blu delle acque del lago non ancora ghiacciate contrasta in maniera netta e spettacolare il bianco, i larici su un lato della collina sembrano disegnati da un matematico, perfetti nella loro geometria, sotto di noi un lembo di spiaggia si insinua appuntito a rompere la dualistica cromia del lago.
Di fianco a noi, e non potrebbe essere altrimenti, a sacralizzare il luogo, un “owoo” (un monticolo di pietre e assi di legno adornato da sciarpe votive e offerte rituali). Restiamo estasiati dallo spettacolo e sentiamo dentro di noi la libertà di quello spazio.
Rientrando conosciamo Gambat, un arzillo che oltre ad offrirci una pipata di tabacco dalla sua particolare pipa ricavata da un ramo di betulla ci invita, una volta che rientreremo dalla taiga, ad unirci a lui in una giornata di pesca: una volta tornati a Tsagaan Nuur prenderemo il suo invito come una missione (il racconto nel prossimo capitolo).
Rientrando verso casa scorgiamo la scritta “газар” sopra la porta di una casetta, è il corrispondente di “tavola calda”, una delle prime parole imparate per la sopravvivenza. È abbastanza difficile mangiare bene in Mongolia, ma “le zie” ci stupiranno con una zuppa saporita e diventeremo loro clienti per tutti i giorni nel villaggio. Il loro sutetzè (tè, latte, burro e sale) ce lo sogniamo ancora oggi.
Stiamo sistemando gli zaini e aspettando che Ulzi ci chiami per confermarci i prezzi dei cavalli quando Bayarhu bussa alla porta e ci porge il telefono. Dall’altro capo c’e David, che ci comunica che l’indomani saremo accompagnati proprio da Bayarhu nella taiga, dagli uomini-renna.

Hello from Slovenia!
I see that you two are still enjoying in traveling. I miss good days we trekked around Kyrgizistan. Did you found a place you are looking for? Are you planing to slowly retutrn in Europe?
I hope we meet somewhere soon!!
Regards,
Andrej
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Andrej!!! So nice to hear from you! Actually we haven’t found the place of our life yet, so we will definitely go ahead 😂! After the”flat-land” Mongolia we are starting to miss mountains again, trekking in Kirghizistan was unforgettable… Tell us what are your plans for summer holiday and maybe we will meet again, should be nice!!!! Hugs to Mateja too
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Ciao!
Till summer is looooong time. First we will visit Sud Tirol, Dobbiaco for some cross country skiing. After that probably a week of holidays in april/may destination is unknown, we have to many wishes (Japan, San Francisco, Amman, Iran, Georgia,…).
For summer we do not know yet. One place i am dreaming to go is Hunza valley in Pakistan do some decent trek in remote valleys. It is to far to decide on that.
Cheers,
Andrej
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Ciao ragazzi, che regalo leggervi, bravi, belli ed appassionanti, grazie!
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Ciao amici, leggervi è come sognare e ci rende consapevoli di quanto gentile e solidale sia l’animo umano ovunque nel mondo..bello saperlo in questo brutto momento storico. Vi abbraccio forte forte e viva la Vita 😘
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Ciao valiiiiii…si il mondo è davvero pieno di belle persone, indistintamente dal paese o dalla cultura.. Un abbraccione a te e alla tua meraviglia ❤️
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