Entrare in Mongolia è stato sotto certi aspetti come tornare in Asia Centrale, facendo di tutto il meglio e il peggio della Cina una parentesi a sé stante.
Attraversiamo il confine a bordo di un furgoncino adibito a navetta – che paghiamo più del doppio rispetto a tutti gli altri ma meno della metà rispetto alle informazioni trovate su vari blog di viaggiatori – e appena arrivati al di là veniamo catapultati in una cittadina sabbiosa dove tutto è diroccato e polveroso e i prezzi nei negozi di alimentari sono precipitati come la varietà di merce sugli scaffali. Facciamo amicizia con un ragazzo che parla un po’ di inglese e che ci aiuta a comprare il biglietto per arrivare ad Ulan Bator, la stessa sua destinazione. Dopo ore di attesa nella piccola stazione di Zamiin Uud arriva con il crepuscolo il momento di salire a bordo per passare la nostra prima notte mongola itinerante.
Compriamo uno dei barattoli di vetro riempiti di cibo casalingo che una signora corpulenta vende direttamente sul binario e ci sistemiamo in carrozza. Il treno è vecchio ma pulito con sedili bordeaux e un piccolo scaldaacqua a carbone.
L’illuminazione funziona solo mentre il convoglio è in corsa e, mano a mano che ci si avvicina ad una stazione, la luce diventa via via più fioca fino a rimanere nel buio totale per i minuti di discesa e salita dei passeggeri. Nonostante l’andatura lenta ogni tanto ci sono degli strattoni come se tamponassimo un treno fantasma, le valigie sui ripiani sobbalzano, le pedine del nostro gioco si muovono ma poco alla volta ci si abitua e nel buio del deserto dei Gobi ci addormentiamo cullati da questo strano ritmo.
Per quanto poco abbiamo viaggiato sui treni cinesi la differenza è lampante: chi parla al telefono lo fa senza urlare, nessuno sputa né butta per terra immondizia e i bagni, arrivata mattina, sono rimasti nelle stesse condizioni della partenza. Assistiamo al risveglio delle tante donne presenti sul treno – alcune sorprendentemente belle – che silenziosamente si pettinano e si imbellettano: il loro portamento è fiero e lo sguardo impassibile. In generale nessuno ci sorride (tranne il nostro amico felice di fare un po’ di conversazione in inglese) o ci osserva più di quel tanto, pare che tutti siano disinteressati, se non addirittura infastiditi dalla curiosità dello straniero.
Una volta arrivati nel gelo e nel grigiore della stazione di UB il nostro nuovo amico dal nome impronunciabile Møнxсайхан (forse anche illeggibile) ci sorprende con un invito diretto e senza preamboli a stare a casa sua: sua moglie è a Pechino e lui è solo, ci può far dormire in salotto. Non è il momento di fare complimenti, non abbiamo una guida né un’idea di dove andare così ringraziamo e ci comprimiamo nella Matiz blu elettrico di suo fratello insieme a tutte le valigie e gli zaini.
Lui abita all’ottavo piano di uno dei tanti palazzi-casermoni in stile sovietico, e il suo appartamentino essenziale e accogliente – e con una bella temperatura caraibica – rimarrà la nostra base per i quattro giorni nella capitale. La giornata scorre poi pigra tra una spaghettata, due chiacchiere e il film “Wolf Totem” che – pur essendo un film cinese ambientato in Inner Mongolia – racconta il delicato equilibrio della steppa tra uomini, cavalli e lupi.
Non potevamo chiedere di più.