Pilipine

Il selfie davanti all’aereo sbagliato. Due geni

 

Arriviamo a Manila con un paio d’ore di ritardo. Due ore passate a sorvolare l’aeroporto con la consapevolezza di essere gli unici responsabili per questo accavallamento di rotte. Siamo infatti noi quelli che erano al gate sbagliato e che solo dopo una corsa sfiancante sotto l’incitamento dei megafoni sono arrivati con già tutto e tutti pronti al decollo.

Il nostro arrivo rocambolesco nelle Filippine coincide con la nomina a presidente di Rodrigo Duterte, il sindaco di Davao che è stato in grado – seppur con metodi poco ortodossi – di risollevare la città rendendola la più sicura del Paese, pur essendo nella famigerata isola del Mindanao. La corruzione, la violenza, la droga (lo shabu, chimica e super economica) gli scontri etnici e religiosi nel Mindanao (MNLP e MILP), la guerriglia comunista più vecchia al mondo (l’NPA) e i banditi dell’Abu Sayyaf nell’aricpelago di Sulu sono solo alcune delle tante questioni ancora irrisolte. Non possiamo dire che tutte le sue politiche rispettino i nostri princìpi, ma pare che il popolo filippino, stufo di crimini e violenze, appoggi in pieno questo controverso tiranno (famoso in Occidente solo per l’intenzione di reintrodurre la pena capitale) nella speranza che estremi rimedi possano dare una svolta definitiva. Nel frattempo, tanto per non sbagliare, ritorniamo a viaggiare con soldi e passaporto nascosti nell’intimo.

Usciti dall’aeroporto di notte veniamo piombati in qualcosa a cui non eravamo più abituati da mesi. Una doccia fredda di strade dissestate, palazzi fatiscenti e clacson senza motivo. Saltiamo su una jeepney (una sorta di jeep/limousine pacchiana con il retro aperto che funge da entrata), percorriamo a piedi vie maleodoranti seguendo un ragazzo che si è offerto di indicarci la strada e raggiungiamo madidi la stazione dei pullman per riuscire a prendere un qualche mezzo che ci porti a casa del nostro host di couchsurfing.

Jeepney

 

L’iniziale timore di essere derubati svanisce dopo poco: arrivando nella periferia di Manila tutto sembra fuorché pericoloso. Famiglie ed un’infinità di ragazzini per le strade, venditori ambulanti di noccioline, un’atmosfera molto rilassata e zone residenziali costituite da stradine con affacciate casette a due piani.

Piove sul bagnato

 

E sorrisi, grandi sorrisi. E quello strano modo di alzare il mento e le sopracciglia in modo quasi ammiccante, che dopo pochi giorni assorbiamo anche noi come saluto.

Viaggiare su strada nelle Filippine, volente o nolente ti rimette in contatto diretto – e stretto – con la gente perché non esistono più biglietterie, centri informazione, opuscoli e numeri a cui chiedere. Tutto diventa possibile, puoi fermare un bus ovunque, salirci anche se pare non ci sia spazio per una mosca, saltare sul tetto di una jeepney se è piena, andare in quattro – o cinque o sei – su un motorino e sbizzarrire la fantasia nell’assenza totale di regole.

  

Il bus di quattordici ore per Matnog dovrebbe partire alle 10, invece accende il motore alle 14 e dopo aver sgasato per una buona mezzoretta nel piazzale un po’ di fumo nero, parte senza che nessuno osi dire qualcosa del ritardo o del caldo insopportabile.

Arriviamo così poco prima dell’alba in questa cittadina portuale, senza un’idea precisa di come proseguire.

Il porto di Matnog

 

Optiamo per la piccola isola di Capul dove scopriremo che la corrente c’è solo dalle quattro del pomeriggio a mezzanotte e non ci sono automobili, solo moto – con selle allungate per poter caricare più passeggeri possibili – che girano sul l’unica pista (a volte di cemento a volte no) che non riesce nemmeno a circumnavigare l’isola per intero. C’è una vecchia chiesa e delle mura che risalgono al diciottesimo secolo che pur essendo fatiscenti regalano al piccolo villaggio un fascino diverso da quello che idealmente avrebbe un’isoletta tropicale.
Ha inizio la nostra decompressione filippina.

L’arrivo sull’isola di Capul


Dopo quattro ore di attesa in mezzo al mare con solo una lenza, un barracuda da 10 kg

Dopo Capul è la volta delle isole Camotes, poi di Bohol e Panglao, decisamente più turistiche ma in sella al motorino (questa volta noleggiato) abbiamo la sensazione di averle un po’ conquistate.

Snorkeling a Tulugan Island (Camotes Islands)
Tulugan Island (Camotes Islands)
Santiago Bay, Pacijan Isalnd (Camotes Islands)
Bohol, un piccolo tarsio, il primate più piccolo che ci sia!

Chocolate hills, Bohol

Anda Beach, Bohol

 

Alona Beach, Panglao Island, il giorno del brevetto Open Water

 

Quando sbarchiamo a Siqujor invece facciamo marcia indietro. L’isola di per se è abbastanza frequentata da turisti, ma noi passiamo le giornate affascinati dai racconti di viaggio di Paco, uno spagnolo che il mondo l’ha girato per quindici anni in bicicletta, trovandosi per caso negli anni ottanta a stringere la mano a Pablo Escobar in Colombia e a mangiare a capotavola con i talebani in Afganistan negli anni novanta.

Paco e la sua mitica bicicletta

 

Paco ha passato gli ultimi quindici anni nelle Filippine e più precisamente a Zamboanga. Il solo pronunciare questo nome fa tremare molti filippini e a leggere gli avvisi della Farnesina l’ultima cosa che verrebbe in mente è quella di metterci piede, ma a parlare con chi ci ha vissuto e ha un’idea meno distorta della realtà le cose cambiano. Il pericolo più incombente per turisti è quello di Abu Sayyaf, che nonostante il suo appoggio all’ISIS è un fenomeno criminale esclusivamente locale e frutto di condizioni e tradizioni che caratterizzano l’arcipelago di Sulu. Enormi famiglie che diventano veri e propri clan dove i legami di sangue sono fondamentali e non si possono tradire; una tradizione piratesca secolare legata ad un mare remoto ricco di isole e isolotti, baie e reef, che ha permesso all’antico Sultanato di Sulu di non soccombere mai completamente ai tentativi di colonizzazioni di spagnoli, olandesi, inglesi e americani.

In questo contesto ed a seguito di un ricco riscatto per il rilascio di un gruppo di turisti sequestrato nel 2000 nel Borneo orientale malese, nasce il fenomeno Abu Sayyaf che facendo base tra Basilan e Jolo (due isole assolutamente sconsigliate), grazie a un semplice messaggio – di un parente o conoscente – e a potentissime speed boat, è in grado di venire a conoscenza della presenza di qualche turista o facoltoso e organizzare in poche ore il sequestro.

Detto questo, Paco ci spiega per filo e per segno come evitare problemi e raggiungere in sicurezza Zamboanga.
Il primo tentativo, che consisteva nell’arrivarci direttamente via mare con l’unica nave del lunedì in partenza da Dumaguete per partire poi alla volta della Malesia con la nave del giovedì, fallisce in seguito all’annullamento di quest’ultima. L’unica alternativa rimasta è quella di tergiversare a Siquijor per altri tre giorni, prendere una nave per Plaridel ed una serie di bus – non “regular” ma “aircon” in modo da fare meno fermate possibili – per partire per la Malesia il lunedì seguente.

L’arrivo a Plaridel, Mindanao

Dopo innumerevoli posti di controllo arriviamo nella città in perenne allarme rosso, dove culture, religioni e lingue differenti (il tausug dei musulmani, il visaya degli immigrati dalle isole centrali e il locale chavacano) si mescolano e convivono. I Bajau, gli zingari pagani del mare, capaci di apnee infinite e di estrema grazia e mobilità sottomarina, sono gli unici esclusi, relegati a fare la carità dalle loro barche e tuffarsi per raccogliere dal fondo del mare qualche moneta, incapaci di far sentire la propria voce tra chi è troppo preoccupato a far capire chi sia il vero dio o a far valere i propri interessi economici.

Passiamo il week end ospiti a casa di una famiglia numerosissima, in una normalità surreale: mentre gli elicotteri dell’esercito sorvolano la città facciamo il pic-nic della domenica in spiaggia; mangiando il gelato sul lungomare recintato guardiamo verso Basilan (l’isola quartiere generale dell’Abu Sayyaf) e trascorriamo le serate sotto il tipico payak in giardino cantando, bevendo Red Horse e Tanduay che ci rendono improvvisamente fluenti in chavacano, un messicano arricchito dalle lingue locali e semplificato nella grammatica grazie all’influsso Bhasa.

Zamboanga vista dall’alto
Il lungomare di Zamboanga

E infine eccoci a doverci congedare. Anche se sentiamo che questo momento è arrivato troppo presto, è il nostro ultimo giorno di visto e abbiamo un appuntamento da rispettare in Indonesia. Arriviamo al porto scortati da metà della splendida famiglia Tose e iniziano le “snelle” procedure di imbarco: sette ore di attesa per salire sulla nave e altre due prima di mollare gli ormeggi con la luce del tramonto su un mare placido che non si farà sentire per le successive ventidue ore.

Intorno e sopra di noi, a condividere quegli stretti spazi tra un letto a castello e l’altro, proprio la gente di Basilan, Jolo e TawiTawi … ma di pirati, fortunatamente, forse non ne abbiamo visti nemmeno in sogno.

L’arrivo a Sandakan, Malesia