Compagnia di naviganti e sognatori

 

Il villaggio di Kura conta trentaquattro anime. Per una fortunata coincidenza autostoppistica noi ne abbiamo conosciute due, Yoshi&Akemi. 

Passeremo le nostre ultime giornate sull’isola di Ishigaki a casa loro, testimoni del ritmo lento e produttivo che dà vita al “sabani”, l’imbarcazione tradizionale dei pescatori di Okinawa. Mentre Yoshi e i suoi due aiutanti armati di scalpello lavorano travi di legno, Akemi fà magie in cucina deliziando ogni intervallo con cibo di ispirazione indiana e sfruttando tutte le erbe del giardino, ma appena fiuta l’occasione di imparare una ricetta italiana ci spalanca le porte della cucina. 

In cucina con Akemi
La preparazione degli gnocchi di zucca
Akiko felice del pranzo italiano! Gnocchi di patate al pomodoro e gnocchi di zucca al burro e rosmarino
Ananas, crèpes con marmellata e succo di finocchietto selvatico
 

Sono trascorsi ormai cinque anni dal giorno in cui Yoshi bussò alla porta del mestro Arashiro di Ishigaki, già ottantenne, e depositario della tecnica della costruzione del sabani. Da quel giorno le due passioni di Yoshi, il legno e il mare, si sono unite ed è iniziata la sua nuova vita. Ci racconta di come sia sempre stato affascinato dal legno mentre ci mostra il tamburo scolpito durante uno dei suoi soggiorni in India, a Rishikesh, nella stessa scuola in cui Hiro (che coincidenza! È stato Hiro a farci assaggiare le vipere a Iriomote) ha imparato a fare i deejiridu. 

 

Il sabani è interamente costruito in legno, non vi è alcuna parte metallica – nessuna, nè viti nè chiodi- e la sua tecnica di costruzione varia leggermente da costruttore a costruttore ed ha subito alcuni accorgimenti nel corso del tempo. 

 

Un tempo costruiti utilizzando solo il pan’noki (albero del pane), ora sono un mix di diversi legni: il sughì (cedro rosso giapponese) per lo scafo e per l’albero, il terihaboku (calophyllum inophyllum) – estremamente duro e resistente – per la base dell’albero. 

In sostituzione dei chiodi, clessidre di inumaki (podocarpus macrophyllus, “chaghì” nella lingua locale) impediscono il distacco dei pezzi assemblati, mentre dei “ganci” di bambù, grazie alla loro elasticità, impediscono il movimento laterale. 

La fase di inserimento della “clessidra”
Yoshi all’opera
 

I remi, competenza di Akiko e Kimi, sono leggeri e resistenti, caratteristiche tipiche del maruba (ehretia dicksonii hance, “zakughi” in lingua locale) 

Akiko
Kimi
 

Yoshi ci confessa però di voler tentare la costruzione di un sabani con il solo legno dell’albero del pane nel prossimo futuro. Ci fa vedere inoltre una foto di un sabani degli anni ’60 e ci fa notare il colore nero delle vele. Se quelle di oggi sono di tessuto sintetico, un tempo erano di cotone imbevuto nel sangue di maiale – per questo il colore scuro – per rendere la trama più fitta e offrire maggior resistenza al vento. 

Fino a pochi anni fa vi erano solo due maestri a continuare la tradizione: Arashiro ad Ishigaki – ormai in pensione – e Itoman a Okinawa – sessantenne ed ancora in attività -. La rinascita dell’amore per quest’arte ha fatto si che ad oggi i sei discepoli di Arashiro – tra cui Yoshi – e sempre nuovi allievi di Itoman perpetuino questa antica tecnica. 


Il richiamo della giungla

La tempesta in arrivo da ovest

Questo vento non è forte come quello del deserto Taklamakan, vero?”
Cerchiamo di rassicurarci sulla tenuta della nostra tenda mentre nel cuore della notte pare che qualcuno abbia direzionato un idrante e una macchina del vento contro di noi. Il frastuono dello scroscio ci impedisce di parlare a bassa voce.

Quando finalmente si fa mattina veniamo sorpresi da uno strano grido: “Uuuuuuuhuuuuuuuuuuuu”

“Ma questo secondo te è un bambino?

Scopriremo poi che siamo nel pieno della stagione delle piogge – meno male non quella dei monsoni – e che l’urlo dalle curiose scale melodiche è il richiamo del piccione verde che si sposta mimetico nella giungla. Ma non è l’unica nostra sveglia: con le prime luci dell’alba echeggia una risata sonora, con un lieve accento diabolico e una scarica di mitragliatrice. È il martin pescatore, che vola veloce e sicuro effettuando millimetirche traiettorie a filo di rami stile stukas, arrivato in questi giorni sulle isole lungo la sua rotta migratoria. Anche i corvi si guardano bene dal farsi trovare sulla sua strada: quel ghigno e soprattutto quel becco non perdonano.

Il “martin pescatore rugginoso”, “akashobi” in giapponese

Il passaggio dalla città alla selvaggia isola di Iriomote è stato breve come un battito di ciglia. All’inizio, allarmati dal pericolo della vipera e di altri serpenti che infestano l’isola, facevamo fatica a camminare scalzi. Ma altrettanto breve è stato l’adattamento alla mancanza di elettricità e all’esplosione di natura.

Il “serpentario crestato”, il rapace specializzato nella caccia ai rettili

Accendiamo il fuoco e mentre facciamo bollire l’acqua per il tè, con farina e acqua prepariamo del pane. Solita partita a backgammon e poi inizia la giornata: la spiaggia è lunga, selvaggia, una lingua oro e ruggine tra il verde e il turchese.



Approfittiamo della bassa marea e sotto la guida silenziosa e sorridente di Kaneco scaviamo nel bagnasciuga in cerca di vongole. Lui le prepara con sake e aceto, noi olio e aglio e ci condiamo gli spaghetti. Nell’acqua invece raccogliamo il “mosuku” – un alga marroncina e viscida – e non avendo minimamente idea di che farne, prendiamo spunto dal nostro maestro: ginger e salsa di soia. Oishi! (delizioso in giapponese)

Kaneco-san il giorno della partenza

 

Dal campeggio di Haemida Beach, ci spostiamo verso la parte settentrionale dell’isola, percorrendo a tappe e in autostop l’unica strada costiera.

Camminata tra le mangrovie con la bassa marea per proseguire poi nel sentiero che conduce alla cascata Pinaisara(sullo sfondo)

Il “saltafango”

La cascata Pinaisara (55mt)
Spiaggia Tsukigahama, sulla costa nord ovest
La baia di Sonai

Abbiamo portato solo l’indispensabile nello zaino, faremo infatti tre notti di free-camping prima di intraprendere il trekking in mezzo alla giungla che taglia l’isola da nord a sud. Il sentiero è ben segnalato con dei nastri fuxia, ma pare che parecchie persone si siano perse e per questo è necessario recarsi all’ufficio di polizia per ottenere un permesso. Prendiamo la prima imbarcazione delle 9.30 che risale il fiume Urauchi che si addentra nella foresta e in mezz’ora arriviamo all’inizio del sentiero. Da qui per otto ore saremo immersi in una vegetazione fittissima intermezzata da cascate e guadi, mangrovie e fango, circondati da mille farfalle e accompagnati da lucertole dalla coda blu o dalla pancia gialla, rane saltellanti e fortunatamente nessun serpente velenoso.

Risalendo il fiume Urauchi
La cascata Maryiudo



Io sono sulla foglia giusta e tu non mi vedi, vero?
La vista della foce del Nakama ci fa capire che siamo quasi arrivati
 
Ritornati al campeggio, la rudimentale vasca da bagno (costituita da un barile di latta sopra un fuoco a mo’di pentolone dei cannibali) e la cucina spartana ci sembreranno a dir poco un lusso..

Vipere alla griglia. Tra gennaio e aprile ci pensano i tagliatori di canna da zucchero a ridurre la popolazione di serpenti velenosi (gli atri infatti vengono risparmiati): quando la lama dei loro macheti incontra la lingua biforcuta, un taglio netto recide la testa e con essa il veleno, il resto finisce alla griglia.

Altri giorni di relax alla Robinson Crusoe e poi, in perfetto stile di quest’isola, un pipistrello – grosso come un bambino di due anni – appeso su un ramo a testa in giù a qualche metro di distanza ci osserva mangiare un po’ di sashimi sulla panchina del porto, la notte prima di imbarcarci per Ishigaki.

La notte nel campeggio di Haemida Beach