Tana Toraja

Nonostante sia in una valle ancor oggi difficile da raggiungere, la cittadina di Rantepao accoglie ogni anno innumerevoli turisti. I magnifici terrazzamenti disordinati a circa 1000 mt di altitudine non sono soltanto una zona franca nel caldo torrido dell’Indonesia, ma la culla e lo scenario di una delle tradizioni più macabre e cruenti che ci sia mai capitato di conoscere.

I Tana Toraja abitano questa zona da secoli, sebbene non ci sia chiaro (e neanche le guide del posto sono riuscite a fugare i nostri dubbi) quando e da dove siano arrivati. Alcuni parlano di abitanti del continente asiatico sud-orientale, arrivati su delle barche – il che spiegherebbe la forma bizzarra dei tetti delle loro case – e mai più ripartiti, ma nulla è dato per certo. 

Seppur ufficialmente convertiti al cristianesimo a fine del 1700, nella cultura Toraja è la morte, o meglio i morti, ad avere un ruolo fondamentale: é solo grazie alla loro benevolenza infatti che la famiglia prospererà ed è per questo che a loro sono riservate una serie di attenzioni uniche, a partire dal funerale stesso.
Per potersene permettere uno adeguato, la famiglia è però costretta a risparmiare per anni: infatti per garantire l’ingresso in paradiso del proprio caro dovranno essere sacrificati un numero variabile di bufali – diciamo da quattro a venti – in base alla classe sociale della famiglia.
Si pensi che il costo di un bufalo normale si aggira intorno ai 2.000€, mentre il prezzo di uno bianco e nero può arrivare a 10.000€ è quello di uno completamente albino può schizzare fino a 100.000€, in una nazione in cui il salario medio nelle campagne potrebbe essere di 300/400€ mensili.

Ciò comporta che nel lasso di tempo compreso tra l’effettiva morte e il tanto agognato funerale possano passare svariati mesi se non anni, in cui la salma viene custodita (previa iniezione di formaldeide) in casa, arrotolata in un tappeto.

Una volta racimolati tutti i soldi necessari, si invitano parenti e amici che porteranno probabilmente maiali da aggiungere al banchetto (e anche turisti, ai quali è chiesto di portare delle sigarette) e per due o tre giorni, all’ombra delle case tradizionali, si passerà pigramente la giornata a mangiare, mentre le bestie vengono sgozzate una dopo l’altra col machete.

A vedere la quantità di volti occidentali presenti ad un funerale Tana Toraja si potrebbe pensare che anche qui l’autenticità delle tradizioni si sia trasformata in una farsa o una trappola acchiappa turisti, ma in quest’angolo di Indonesia le credenze sono così radicate che gli improvvisati e non fotoreporter non siano altro che una cornice irrilevante.

Non solo i funerali hanno come leitmotiv il sacrificio rituale. Abbiamo partecipato all’inaugurazione di una casa in cui almeno una cinquantina di maiali sono stati uccisi. (A parte questo, prima che arrivasse al culmine omicida la cerimonia è stata coinvolgente con musiche e danze tradizionali)

È talmente alto il numero di bufali e maiali uccisi in queste occasioni da permettere alla cittadina di non aver bisogno neanche di una macelleria: tutta la carne che circola arriva direttamente da questi e altri eventi sociali che prevedono altrettanti spargimenti di sangue. E per far fronte alla così alta richiesta di bufali d’acqua, si deve per forza ricorrere all’importazione da altre isole, specialmente da Giava.


Ma non è finita qui. Non con i defunti almeno. All’incirca ogni tre/cinque anni, le tombe – che consistono in loculi scavati nella pietra – vengono riaperte per dare un’aggiustatina alla mummia (cambiandole per esempio i vestiti) o nel caso di un antenato troppo vecchio, semplicemente una ripulita della bara.

Purtroppo non abbiamo potuto assistere a questa cerimonia molto più intima, quindi possiamo solo riferire quello che ci è stato raccontato dalla nostra guida

Questo tipo di società che già al livello più alto vede una divisione tra famiglie più ricche e più povere probabilmente non potrebbe esistere se non vigesse un sistema feudale che vede una massa di veri e propri servi della gleba che lavorano la terra dei padroni per avere quel tanto che basta per sopravvivere. In questo circolo vizioso quindi si risparmia e si dilapidano enormi ricchezze affinché i propri cari defunti permettano di ricreare ricchezze ancora maggiori.

Alcuni giovani, soprattutto quelle che per studio o lavoro non vivono più a Sulawesi ma su un’altra isola indonesiana o addirittura all’estero, vorrebbero liberarsi da questa catena, ma solo il tempo sarà in grado di dirci quanto a fondo vanno le radici Toraja.

Concentrato estivo 

Siamo stipati da tre giorni su una nave – che neanche troppo eufemisticamente chiamiamo carro bestiame – e non è quella che dalle Filippine ci ha lasciato in Malesia, perché da allora sono passati quasi tre mesi.

Non che di cose non ne siano successe, ma complici il clima tropicale e soprattutto la visita di amici e famiglia (santo agosto!) abbiamo preso un andazzo vacanziero difficile da scollarsi di dosso dopo più di un anno e mezzo di viaggio.

Ora il viaggio è ricominciato e i tempi morti e la voglia di scrivere anche, ma oggi si cambia regime: se di solito evitavamo di fare la “lista della spesa”, per porre rimedio a cotanto lassismo oggi annoveriamo gli eventi principali di questi mesi suddividendoli in tre macro sezioni.

Nb: causa rottura della macchina fotografica e furto del telefono, la quantità e qualità delle foto è quella che è…

VACANZA N•1
Dal Borneo al Sulawesi, in compagnia di Davies, Carletto e Anna (che per evitare fraintendimenti chiameremo Varanasi) e Gabri&LaVale.

  • Avvistamenti marini vari intorno all’isola di Maratua (arcipelago di Derawan) tra cui uno squalo che ha fatto fare ad Anna e Varanasi il record dei “100 metri in 2 secondi” e “agility di risalita sulla barca senza scaletta” a Gabri. (Un applauso a Marco per l’avvistamento e uno a Davies per aver preso il coltello e continuato lo snorkeling).

  • Eccelsa performance canora di Vale, Anna e Varanasi in un Karaoke/Bordello nella ridente città di Berau, unico posto che vendesse birra dove Carletto si è improvvisato vocalist.
  • Tentativo fallito di avvistamento dell’orango (ma abbiamo visto il nido e sopratutto imparato che l’orango fa un nido) nella foresta di Wehea, un piccolo cuore pulsante di giungla raggiunto dopo aver guardato per ore lo scempio creato da motoseghe ed incendi per creare spazio alle palme da olio.

  • Eccitamento collettivo per aver preso una suite per due persone ed esserci stati in cinque (tutto alla luce del sole!) pagando 13€ a testa e aver potuto così fare una doccia calda di lusso e depredare il buffet colazione. Non prima di aver scattato alcune foto geniali in un centro commerciale.
Varanasi a Londra
Davies nella preistoria
Carletto tra le nuvole
  • Passare venti ore sulla Pantocrato, nave greca con armatore indonesiano di palesi origini cinesi che, vedendoci ammassati sui letti a castello, ci invita nella cabina di pilotaggio stappando una bottiglia di vino simil-aceto la sera e ci offre del gado-gado (mix di verdura con salsa di arachidi) a colazione!

  • Entrare in contatto la tribù dei Tana Toraja e le loro tradizioni sanguinarie, partecipando all’inaugurazione di una casa e ad un rito funebre nei quali sono stati sacrificati rispettivamente maiali e bufali *(vedi prossimo articolo).

  • Arrivare per gli ultimi tre giorni alle isole Togean, rilassarsi tra amaca e tramonti a picco sul mare e fare i tuffi bomba dal pontile dal quale, per festeggiare il compleanno di Davies, Marco ha deciso di provare a fare un back-flip…sul pontile.

  • Imparare a mettere i punti di sutura (Anna e Varanasi) guardando un radiologo inglese improvvisatosi infermiere che con un self-control e un sorriso da spot del dentifricio ricuce la testa di Marco senza anestesia (per il motivo del punto precedente), mentre Carletto e Davies sbiancano e sudano.

VACANZA N•2
Dal Sulawesi alle Raja Ampat, con Lucilla e Diego.

  • Farsi un aperitivo con Franciacorta e Parmigiano sull’isola di Bunaken, e non aggiungiamo altro.
  • Avvistare giornalmente squali (d’ora in poi nostri amici) tartarughe, migliaia di pesci colorati ma anche un dugongo, serpenti marini, un’aquila di mare, una manta, una razza gigante, mini-cavallucci marini, branchi di barracuda (…). E stormi di pappagalli e aquile e uccelli del paradiso rossi durante il rituale dell’accoppiamento. Ma anche topi, che di notte zampettavano sulle travi del bungalow.

  • Dare il peggio di sè durante gli agguerriti tornei di burraco dopo cena.

  • Scoprire dopo un tuffo da uno degli scogli della baia tra Gam e Waigeo che la nostra barca era stata accerchiata da tre canoe di serissimi papuani che, con motosega e macheti al seguito, richiedevano senza troppi complimenti un gentile contributo per l’utilizzo del “trampolino”.
Pianemo
  • Provare l’ebrezza di rimanere a 20 metri di profondità improvvisamente senza ossigeno (per errore, la bombola di Marco non era stata aperta del tutto e dopo 10 minuti – complice la pressione – aveva smesso di erogare) e fare la procedura di salvataggio. Ma non era una di quelle cose “tanto non succederà mai” ?!

  • Fare ogni sera l’aperitivo con birra e noccioline sul pontile all’ora del tramonto e arrivare nella maggior parte dei casi con il sole già sprofondato nel mare (non per colpa nostra ma per alcune difficoltà matematiche nelle addizioni alle quali il ragazzo addetto alla cassa non riusciva a far fronte nemmeno con l’uso della calcolatrice).

  • Sognare per giorni l’ultima e meritata cena in un piccolo ristorante italiano (Angela cafè, a Manado) finalmente con pizza e insalata!

STOP TECNICO di dieci giorni a Manado in attesa del rinnovo del visto. Una delle città più brutte, sporche e prive di attrattive incontrate lungo il nostro cammino. Per movimentare le giornate, siamo passati da “Rich Dental Clinic” (dove Rich è l’abbreviazione di Richard) e Marco ne è uscito più leggero!

A dire il vero ci siamo presi il week end per andare nella vicina zona di Tomohon.

Il cratere del vulcano Empung

VACANZA N•3
Sull’isola di Bangka, ospiti da Marco e Ilaria al Coral Eye resort.

  • Ritornare a mangiare italiano a colazione, pranzo e cena (e merenda!) e correre a tavola al grido indonesiano di “È PBRONDO!!”.
  • Riuscire dopo estenuanti e frustranti allenamenti a percorrere tutta la slackline (Anna) o almeno prenderci confidenza (Marco).

  • Provare nuovamente la sensazione di avere una casa.
  • Mandare al diavolo per una sera il vegetarianismo mangiando pecorino e salame felino (per caso si nota che ci inizia a mancare il cibo italiano?).
  • Ascoltare tutte le incredibili storie di credenze e superstizioni degli abitanti dell’isola (la più saliente: se un figlio – anche adulto – davanti alla propria famiglia diventa violento e non ragiona più mettendo a rischio l’incolumità della stessa, la madre si sfila le mutande e sbattendogliele in faccia lo fa svenire!)


FINE
E invece ora ci stiamo aggirando tra le isole Banda, su navi che ci fanno rimpiangere il carro bestiame di cui sopra, ma che ci viziano di sapori e storia.
A presto – si fa per dire 😉

PILLOLE Filippine

I gabinetti sono tendenzialmente in miniatura, senza asse e per tirare l’acqua si usa una scodella.

La toilette si chiama “comfort room”, e si abbrevia CR. (La parola comfort è un eufemismo)

La doccia si fa con secchio e scodella..

Bere da un bicchiere rotto o guardarsi in specchio rotto porta sfortuna.

Lasciare i panni stesi fuori di notte non si fa per via dei fantasmi (come a Taiwan!)

Sui bus il ragazzo addetto a raccogliere i soldi li tiene tra le dita piegati per il lungo.

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La benzina viene venduta a bordo strada in bottiglia di Coca Cola da 1 litro.

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Shampoo, detersivo, caffè e tante altre cose sono vendute in confezioni monouso in qualsiasi shop ma anche al supermercato.

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Le sigarette si possono comprare singolarmente.

La soluzione più economica per mangiare sono le “pentole”, un esempio di street food casalingo.

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È molto facile trovare a bordo strada mucchi di cocco ad essiccare.

Le uniche parole in italiano conosciute, sono “dolce amore”, nome di una famosa soap opera filippina.

I gatti hanno la coda corta.

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Ovunque si vedono galli: tristemente diffuso il combattimento di animali come divertimento della domenica.

Pilipine

Il selfie davanti all’aereo sbagliato. Due geni

 

Arriviamo a Manila con un paio d’ore di ritardo. Due ore passate a sorvolare l’aeroporto con la consapevolezza di essere gli unici responsabili per questo accavallamento di rotte. Siamo infatti noi quelli che erano al gate sbagliato e che solo dopo una corsa sfiancante sotto l’incitamento dei megafoni sono arrivati con già tutto e tutti pronti al decollo.

Il nostro arrivo rocambolesco nelle Filippine coincide con la nomina a presidente di Rodrigo Duterte, il sindaco di Davao che è stato in grado – seppur con metodi poco ortodossi – di risollevare la città rendendola la più sicura del Paese, pur essendo nella famigerata isola del Mindanao. La corruzione, la violenza, la droga (lo shabu, chimica e super economica) gli scontri etnici e religiosi nel Mindanao (MNLP e MILP), la guerriglia comunista più vecchia al mondo (l’NPA) e i banditi dell’Abu Sayyaf nell’aricpelago di Sulu sono solo alcune delle tante questioni ancora irrisolte. Non possiamo dire che tutte le sue politiche rispettino i nostri princìpi, ma pare che il popolo filippino, stufo di crimini e violenze, appoggi in pieno questo controverso tiranno (famoso in Occidente solo per l’intenzione di reintrodurre la pena capitale) nella speranza che estremi rimedi possano dare una svolta definitiva. Nel frattempo, tanto per non sbagliare, ritorniamo a viaggiare con soldi e passaporto nascosti nell’intimo.

Usciti dall’aeroporto di notte veniamo piombati in qualcosa a cui non eravamo più abituati da mesi. Una doccia fredda di strade dissestate, palazzi fatiscenti e clacson senza motivo. Saltiamo su una jeepney (una sorta di jeep/limousine pacchiana con il retro aperto che funge da entrata), percorriamo a piedi vie maleodoranti seguendo un ragazzo che si è offerto di indicarci la strada e raggiungiamo madidi la stazione dei pullman per riuscire a prendere un qualche mezzo che ci porti a casa del nostro host di couchsurfing.

Jeepney

 

L’iniziale timore di essere derubati svanisce dopo poco: arrivando nella periferia di Manila tutto sembra fuorché pericoloso. Famiglie ed un’infinità di ragazzini per le strade, venditori ambulanti di noccioline, un’atmosfera molto rilassata e zone residenziali costituite da stradine con affacciate casette a due piani.

Piove sul bagnato

 

E sorrisi, grandi sorrisi. E quello strano modo di alzare il mento e le sopracciglia in modo quasi ammiccante, che dopo pochi giorni assorbiamo anche noi come saluto.

Viaggiare su strada nelle Filippine, volente o nolente ti rimette in contatto diretto – e stretto – con la gente perché non esistono più biglietterie, centri informazione, opuscoli e numeri a cui chiedere. Tutto diventa possibile, puoi fermare un bus ovunque, salirci anche se pare non ci sia spazio per una mosca, saltare sul tetto di una jeepney se è piena, andare in quattro – o cinque o sei – su un motorino e sbizzarrire la fantasia nell’assenza totale di regole.

  

Il bus di quattordici ore per Matnog dovrebbe partire alle 10, invece accende il motore alle 14 e dopo aver sgasato per una buona mezzoretta nel piazzale un po’ di fumo nero, parte senza che nessuno osi dire qualcosa del ritardo o del caldo insopportabile.

Arriviamo così poco prima dell’alba in questa cittadina portuale, senza un’idea precisa di come proseguire.

Il porto di Matnog

 

Optiamo per la piccola isola di Capul dove scopriremo che la corrente c’è solo dalle quattro del pomeriggio a mezzanotte e non ci sono automobili, solo moto – con selle allungate per poter caricare più passeggeri possibili – che girano sul l’unica pista (a volte di cemento a volte no) che non riesce nemmeno a circumnavigare l’isola per intero. C’è una vecchia chiesa e delle mura che risalgono al diciottesimo secolo che pur essendo fatiscenti regalano al piccolo villaggio un fascino diverso da quello che idealmente avrebbe un’isoletta tropicale.
Ha inizio la nostra decompressione filippina.

L’arrivo sull’isola di Capul


Dopo quattro ore di attesa in mezzo al mare con solo una lenza, un barracuda da 10 kg

Dopo Capul è la volta delle isole Camotes, poi di Bohol e Panglao, decisamente più turistiche ma in sella al motorino (questa volta noleggiato) abbiamo la sensazione di averle un po’ conquistate.

Snorkeling a Tulugan Island (Camotes Islands)
Tulugan Island (Camotes Islands)
Santiago Bay, Pacijan Isalnd (Camotes Islands)
Bohol, un piccolo tarsio, il primate più piccolo che ci sia!

Chocolate hills, Bohol

Anda Beach, Bohol

 

Alona Beach, Panglao Island, il giorno del brevetto Open Water

 

Quando sbarchiamo a Siqujor invece facciamo marcia indietro. L’isola di per se è abbastanza frequentata da turisti, ma noi passiamo le giornate affascinati dai racconti di viaggio di Paco, uno spagnolo che il mondo l’ha girato per quindici anni in bicicletta, trovandosi per caso negli anni ottanta a stringere la mano a Pablo Escobar in Colombia e a mangiare a capotavola con i talebani in Afganistan negli anni novanta.

Paco e la sua mitica bicicletta

 

Paco ha passato gli ultimi quindici anni nelle Filippine e più precisamente a Zamboanga. Il solo pronunciare questo nome fa tremare molti filippini e a leggere gli avvisi della Farnesina l’ultima cosa che verrebbe in mente è quella di metterci piede, ma a parlare con chi ci ha vissuto e ha un’idea meno distorta della realtà le cose cambiano. Il pericolo più incombente per turisti è quello di Abu Sayyaf, che nonostante il suo appoggio all’ISIS è un fenomeno criminale esclusivamente locale e frutto di condizioni e tradizioni che caratterizzano l’arcipelago di Sulu. Enormi famiglie che diventano veri e propri clan dove i legami di sangue sono fondamentali e non si possono tradire; una tradizione piratesca secolare legata ad un mare remoto ricco di isole e isolotti, baie e reef, che ha permesso all’antico Sultanato di Sulu di non soccombere mai completamente ai tentativi di colonizzazioni di spagnoli, olandesi, inglesi e americani.

In questo contesto ed a seguito di un ricco riscatto per il rilascio di un gruppo di turisti sequestrato nel 2000 nel Borneo orientale malese, nasce il fenomeno Abu Sayyaf che facendo base tra Basilan e Jolo (due isole assolutamente sconsigliate), grazie a un semplice messaggio – di un parente o conoscente – e a potentissime speed boat, è in grado di venire a conoscenza della presenza di qualche turista o facoltoso e organizzare in poche ore il sequestro.

Detto questo, Paco ci spiega per filo e per segno come evitare problemi e raggiungere in sicurezza Zamboanga.
Il primo tentativo, che consisteva nell’arrivarci direttamente via mare con l’unica nave del lunedì in partenza da Dumaguete per partire poi alla volta della Malesia con la nave del giovedì, fallisce in seguito all’annullamento di quest’ultima. L’unica alternativa rimasta è quella di tergiversare a Siquijor per altri tre giorni, prendere una nave per Plaridel ed una serie di bus – non “regular” ma “aircon” in modo da fare meno fermate possibili – per partire per la Malesia il lunedì seguente.

L’arrivo a Plaridel, Mindanao

Dopo innumerevoli posti di controllo arriviamo nella città in perenne allarme rosso, dove culture, religioni e lingue differenti (il tausug dei musulmani, il visaya degli immigrati dalle isole centrali e il locale chavacano) si mescolano e convivono. I Bajau, gli zingari pagani del mare, capaci di apnee infinite e di estrema grazia e mobilità sottomarina, sono gli unici esclusi, relegati a fare la carità dalle loro barche e tuffarsi per raccogliere dal fondo del mare qualche moneta, incapaci di far sentire la propria voce tra chi è troppo preoccupato a far capire chi sia il vero dio o a far valere i propri interessi economici.

Passiamo il week end ospiti a casa di una famiglia numerosissima, in una normalità surreale: mentre gli elicotteri dell’esercito sorvolano la città facciamo il pic-nic della domenica in spiaggia; mangiando il gelato sul lungomare recintato guardiamo verso Basilan (l’isola quartiere generale dell’Abu Sayyaf) e trascorriamo le serate sotto il tipico payak in giardino cantando, bevendo Red Horse e Tanduay che ci rendono improvvisamente fluenti in chavacano, un messicano arricchito dalle lingue locali e semplificato nella grammatica grazie all’influsso Bhasa.

Zamboanga vista dall’alto
Il lungomare di Zamboanga

E infine eccoci a doverci congedare. Anche se sentiamo che questo momento è arrivato troppo presto, è il nostro ultimo giorno di visto e abbiamo un appuntamento da rispettare in Indonesia. Arriviamo al porto scortati da metà della splendida famiglia Tose e iniziano le “snelle” procedure di imbarco: sette ore di attesa per salire sulla nave e altre due prima di mollare gli ormeggi con la luce del tramonto su un mare placido che non si farà sentire per le successive ventidue ore.

Intorno e sopra di noi, a condividere quegli stretti spazi tra un letto a castello e l’altro, proprio la gente di Basilan, Jolo e TawiTawi … ma di pirati, fortunatamente, forse non ne abbiamo visti nemmeno in sogno.

L’arrivo a Sandakan, Malesia

PILLOLE Taiwan

Il pannello che indica i piani dell’ospedale

 

Il numero sfortunato è il 4 (la sua pronuncia è simile alla parola che significa “morte”). Di conseguenza, gli appartamenti al quarto piano costano meno, i bus delle scolaresche in gita sostituiscono il 4 con una A e negli ospedali ovviamente il quarto piano non esiste.

Non solo gli italiani gesticolano: a Taiwan, per dire “morto” si fa una sorta di uncino con l’indice e lo si muove su e giù.

Nei ristoranti si ordina da soli: ci sono dei menù stampati da compilare e poi si consegna il tutto alla cameriera (a volte il menù è plastificato e si usa una penna apposita)

Quando si mangiano i noodles non si fa rumore (come in Giappone). Con i bastoncini li si portano in bocca e ci si aiuta con il cucchiaio.

Tanti si portano i bastoncini da casa, per evitare di sprecare quelli usa e getta.

Ovunque le bevande vendute nei bicchieri di carta (milk-tea, tè, frullati etc) vengono sigillate con una pellicola e bevuti con la cannuccia.

Nei bagni la carta igienica è stata soppiantata dai Kleenex.

I Kleenex hanno sostituito anche i tovaglioli. Nei ristoranti di solito sono appesi al muro.

Nelle scuole gli alunni fanno a turno le pulizie di tutto l’edificio, bagni compresi.

Negli ospedali la poltrona di fianco al letto del paziente diventa un letto ed è fatta apposta per permettere di essere assistiti da un parente o un amico.

La pulizia dei denti costa (x gli stranieri) dai 10€ ai 20€.

Durante l’anno del drago (oroscopo cinese) si ha un boom di nascite, al contrario dell’anno della tigre. Questo perché il drago è consideraro un ottimo segno e le giovani coppie programmano possibilmente la nascita dei figli in questo anno.

Nelle bancarelle di frutta, vengono venduti (giustamente) anche i pomodori!

Nelle panetterie ci si arma di vassoio e pinza e si sceglie da soli, poi si va in cassa.

Un efficace metodo per contrastare l’evasione di tasse è stato quello di aver inserito in ogni scontrino fiscale un numero che, una volta al mese, potrebbe essere uno dei tanti estratti in una sorta di lotteria nazionale. Le vincite non sono altissime ma molto frequenti.

La raccolta della spazzatura è effettuata da un camion che emette a tutto volume una determinata melodia. Così facendo, la gente ha il tempo di scendere in strada (bene o male ogni quartiere ha un orario) e riporre il sacchetto nel cassone.

Non importa se ci sono 40°C, dopo la doccia ci si asciuga i capelli con il phon, per evitare di prendere un raffreddore o per avere capelli più belli!

In motorino ci si mette la giacca al contrario: non per il freddo, ma per evitare di abbronzarsi.

In motorino si usa il casco (al contrario della Cina) e quando si parcheggia lo si appoggia sullo specchietto, o sulla sella. Nessuno lo ruba.

Quando un motorino vuole girare (per esempio) a sinistra, non si mette in mezzo alla strada ma in un apposito rettangolo sulla destra, davanti alle striscia pedonali e aspetta quindi il verde.

Durante il “mese dei fantasmi”, a luglio, è bene non fischiare: questo potrebbe far arrivare i demoni. Evitate di nuotare, perché i fantasmi vi farebbero annegare. Non sottoponetevi ad interventi chirurgici nè comprate un auto. Per ultimo, non lasciate i panni stesi fuori di notte, i fantasmi ve li ruberebbero!

Mai toccare le spalle di qualcuno mentre si sta giocando a carte o a “mah Jong” : si potrebbe spegnere la fiamma della fortuna!

Verde speranza

Tre ore di mare arrabbiato, sotto la pioggia battente che si riversa sul battello insieme alla spuma delle onde che ci colpiscono, correnti che si rincorrono e cavalloni che si scontrano lì dove il Mare Cinese Meridionale si mescola con l’Oceano Pacifico.  
Poi la calma, e la protezione offerta dalla terra ferma, verde e nera. Forse è questo quello che hanno provato i Tao, la popolazione di origine filippina arrivata qui con barche a remi più di ottocento anni fa dalle isole Batanes, 150 km più a sud. 


 

Pongso no Tao (“isola degli uomini”), oggi conosciuta come Lanyu, è l’isola dove iniziamo ad annusare l’atmosfera del pacifico, i tratti somatici iniziano a cambiare – non sono più cosí asiatici – e la pelle si fa più scura. Se fino al 1967 i Tao ebbero il privilegio di rimanere isolati (l’ingresso al pubblico era stato infatti vietato già durante la dominazione giapponese), dopo quella data l’apertura di scuole per la diffusione della lingua e della cultura Han e l’afflusso di turisti ne segnarono l’inizio di una lenta e inevitabile contaminazione.  
Dopo anni in cui l’essere aborigeno era visto come una vergogna e delle suddette politiche del Kuomitang volte al cambiamento dei costumi locali, con la fine degli anni novanta iniziò a farsi strada un tentativo di salvaguardare e valorizzare il patrimonio culturale delle popolazioni autoctone. Nonostante gli sforzi, purtroppo oggi sembra ormai inarrestabile la scomparsa delle tradizioni e soprattutto delle antiche lingue austronesiane, ormai sulla strada dell’oblio (cosa che accadrà probabilmente in un paio di generazioni anche per il taiwanese – un dialetto cinese portato dalla Cina continentale – ben distinto dall’ufficiale mandarino). 

 

Seppur appannata, la cultura dei Tao è ovviamente tuttora strettamente connessa al mare. La pesca avviene di notte su tipiche imbarcazioni rosse e bianche sulle quali è dipinto un “occhio”, diventato ormai il simbolo di Lanyu, che terrebbe lontano le energie negative. 

 

Tradizionalmente la costruzione della propria propria barca, considerata un’estensione materiale e spirituale di se stessi, coincide con il raggiungimento della maturità ed ogni ragazzo dovrebbe costruirsene una. Ad oggi sono pochi e vecchi i maestri che possiedono la raffinata tecnica di costruzione, che non prevede l’utilizzo di chiodi o viti metalliche e che utilizza ben undici diversi tipi di legno presenti sull’isola, cosa che in passato comportava una cura e una verifica costante degli alberi della foresta. Per motivi scaramantici da aprile a luglio non è possibile dedicarsi alla costruzione delle barche (e neanche lanciare sassi in mare), perché questo periodo coincide con l’arrivo dei pesci volanti, una stagione quasi sacra per i Tao. 

 

Ci spostiamo di villaggio in villaggio in bicicletta, lungo una stretta strada costiera tra spiagge scure e falesie, e non possiamo non notare le innumerevoli rastrelliere alle quali sono appese ad essiccare in maniera geometricamente perfetta le sagome sfilettate dei pesci volanti. A guardare bene però, scopriamo che a seconda del villaggio i pesci vengono appesi in maniera diversa.  


 

Girovaghiamo senza meta precisa, un po’ come la famigliole di maiali che pigramente si spostano da un’ombra all’altra. Almeno qui, pare che gli animali non se la passino troppo male. Ma se il maiale viene ucciso e mangiato in speciale occasioni (come la celebrazione alla fine della costruzione della barca) le capre non devono preoccuparsi di nulla, visto che il loro proprietario ci tiene a vederle crescere in numero essendo questo un indice di ricchezza.



 

Poi, raggiunto il punto più meridionale dell’isola, la triste sorpresa: un sito di stoccaggio dei rifiuti nucleari provenienti dalle tre centrali atomiche presenti a Taiwan. 

 

All’inizio degli anni ottanta la Taipower, società elettrica statale, iniziò la costruzione della discarica sull’isola convincendo i Tao che si trattasse di una fabbrica per l’inscatolamento del pesce che avrebbe portato lavoro sull’isola. Finalmente nel 1987 la popolazione locale scopri l’imbroglio e iniziarono le proteste. Purtroppo però al momento sono 98’700 i barili presenti nella discarica e, nonostante le mille promesse di procedere alla loro rimozione da parte del governo, ad oggi non è stata presa nessuna decisione e sembra che non ci sia alcuna fretta per risolvere il problema dei molti contenitori di rifiuti che versano in pessime condizioni.

Dopo aver pedalato lungo tutta la costa ovest di Taiwan, essersi resi conto della drammatica situazione ambientale in cui versano l’isola e le sue coste tra fabbriche, speculazione edilizia e terreni disboscati per lasciare spazio ad ardite coltivazioni su ripidi pendii (che franano sotto le piogge torrenziali della stagione dei tifoni), stalle di lamiera sotto il sole cocente per polli e maiali e coltivazioni dove si ricorre pesantemente all’uso di pesticidi, l’arrivare in questo paradiso e scoprire che sono riusciti a portare anche qui i peggiori rifiuti di una società che corre troppo veloce sulle spalle delle generazioni future ci ha fatto sentire completamente inermi e impotenti. 

In merito vi consigliamo di vedere il documentario “Beyond beauty: Taiwan from above” girato dal regista taiwanese Chi Po Lin: fortunatamente anche qui inizia a fare breccia un barlume di sensibilità e attenzione ambientalista.

Matsu

Bao Ma Zai (報馬仔) Questa figura apre la processione annunciando l’arrivo del palanchino con la statua di Matsu. Così facendo, le persone che non possono parteciparvi (donne durante il ciclo mestruale o persone che hanno appena perso un familiare) rientrano nelle proprie abitazioni.

Urla, tamburi e gong, danze di maschere, leoni e dragoni, pentoloni di cibo, una sorta di anarchia visiva e sonora, un vortice di confusione. 

Lukang, devoti si alternano nella danza del leone davanti al tempio di Matsu.
Lukang, all’interno del tempio un uomo (all’apparenza posseduto) si dimena dopo essersi passato sul palmo della mano gli incensi accesi.

Siamo all’inizio di una lunga e rumorosa settimana di celebrazioni in onore di una delle divinità più celebrate di Taiwan: Matsu, dea dei pescatori e dei marinai (considerata oggi madre di tutti gli dèi), è arrivata qui con i primi migranti della Cina continentale che per ringraziarla della protezione concessa durante il viaggio le hanno dedicato più di mille templi. 

Lukang, la statua di Matsu all’interno del tempio
Il tempio Chaotian di Beigang visto dall’alto.
 

Il più famoso è quello di Beigang, dove ci troviamo in questo momento. La prima volta che sentimmo parlare di questa celebrazione fu esattamente un anno fa, in Turchia, quando incontrammo Joseph e Niddle, una coppia di taiwanesi che ci parlarono così bene di quest’isola da decidere di includerla nel nostro giro del mondo. Non potevamo immaginare che ci avrebbero perfino prestato le loro biciclette e che alla fine avremmo fatto la nostra prima esperienza di cicloturismo per più di un mese, ma alla fine eccoci qua, con i primi 250km sulle gambe.

Ci avviciniamo al tempio, il caldo è di quelli che sciolgono, intorno è pieno di gente di tutte le età: chi mangia, chi beve, chi fuma e chi schiuma rosso dalla bocca per il betel. Il fumo degli incensi bruciati inizia a farsi più penetrante, ma è solo quando siamo prossimi all’entrata che la nuvola densa e assordante dei petardi diventa un muro che ci fa retrocedere. 

 

Il flusso della gente cambia improvvisamente direzione e sembra di essere in una scena di guerriglia. Matsu sta entrando nel tempio e sono proprio il fumo e il rumore delle esplosioni – che allontanano i demoni e le energie negative – che danno il benvenuto ad una delle tante statue della dea. Una processione che miscela il sacro e il profano, a metà tra la festa per San Gennaro a Napoli e il Carnevale di Viareggio: statue di Matsu trasportate su palanchini da devoti al suono di tamburi si mescolano a carri da cui bambine e bambini truccati lanciano caramelle e dolciumi a suon di techno o di qualche hit commerciale. 




 

Audaci ragazzi vestiti con divise tigrate – qui a Beigang il dio tigre ha molti più seguaci di quanti ne abbia nel resto di Taiwan – esplodono centinaia di petardi ai loro piedi mentre fedeli con maschere di leone improvvisano danze e un medium impossessato da un non meglio precisato dio si colpisce con una spada per dimostrare la sua superiorità divina al dolore. 


  

Le statue di Matsu presenti nei templi minori vengono portate a Beigang in questo periodo in particolare per “ricaricarsi” di energia divina per l’anno a seguire. Uno dei riti più particolari a cui abbiamo assistito prevede l’inserimento – da parte di un sacerdote – di una vespa (viva) e di cenere all’interno della statua: si ritiene che questo dia nuova vita al dio e che il veleno della vespa renda il legno di cui è fatta più resistente. 

 

Salutiamo i genitori di Joshep da cui siamo stati ospiti per due notti e ci rimettiamo in sella. Decidiamo di allungare di parecchi chilometri e inerpicarci verso il monte Alishan – che mai raggiungeremo per il terrore delle folle turistiche del week end – e così facendo iniziamo a scoprire finalmente una Taiwan fatta non solo di cemento e capannoni intramezzati da campi di riso e allevamenti di maiali e polli. 

Sulla strada secondaria 159 per Alishan
Coltivazione di tè nei pressi di Fencihu
 

E’ strano ed entusiasmante poter partire senza dover aspettare un passaggio o comprare un biglietto: dalla prima pedalata abbiamo scoperto una nuova veste del viaggio, inaspettata, più lenta e faticosa, ma che ti fa guardare più a fondo quello che scorre. 

Bollitura dei germogli di bambù
Scoiattolo volante
 

Quando raggiungiamo Tainan, la capitale gastronomica di Taiwan, la nostra amica Niddle ci scorrazza tra bancarelle, ristoranti e templi soddisfacendo brillantemente tutte le nostre curiosità e spiegandoci che Matsu a parte, il caotico pantheon taoista include un’infinità di dèi, ognuno incaricato di risolvere specifici problemi o dare protezione in un determinato campo, ed ad ognuno di essi è dedicato un tempio o almeno un area di esso. 

Tempio Cheng-Huang, dedicato al dio incaricato della “gestione dei fantasmi”, ovvero è colui che decide in quale dei diciotto piani dell’inferno mandare le anime.
Tempio “Madame Linshui”, la dea che protegge i bambini fino all’età di sedici anni e alla quale si rivolgono le donne desiderose di una gravidanza.
 

La scena più comune a cui capita di assistere è quella di “comunicazione” diretta con la divinità: il fedele che abbia qualsiasi domanda da rivolgere, lancia in terra due mezzelune di legno e in base a come queste cadono ha la risposta. I più scrupolosi considerano però attendibile il risultato solo se per tre volte di fila ricevono la stessa risposta. 

Per ricevere un messaggio divino, si pesca a caso un “bastoncino” che riporta un numero (eventualmente si può chiedere alla divinità del tempio con le mezzelune se è il numero giusto) e si estrae dal cassettino con il medesimo numero un biglietto con il messaggio.
Qualora le mezzelune cadano a pancia in su la risposta è “no”, entrambe a pancia in giù indicherebbero un “forse” (pare che sia l’equivalente di una risata) mentre una a pancia in giù e una in su corrisponderebbe al “si”
 

Lo stesso identico metodo è utilizzato anche per comunicare con gli antenati, che ricoprono un ruolo fondamentale nella vita dei taiwanesi e ai quali vi si rivolge per chiedere consigli e autorizzazioni, questa volta non nel tempio ma comodamente da casa. 

Un altarino dedicato al culto degli antenati. all’interno di un negozio/casa.

Fiori, frutta, soldi finti (e ultimamente anche iPhone di carta) sono solo degli esempi di offerte che si portano nei templi, perché le divinità hanno in fondo i nostri stessi bisogni. Stessa cosa vale per i defunti: durante la veglia funebre – che dura una settimana – vicino al corpo viene allestita una casa di cartone, una riproduzione idilliaca e lussuosa con anche guardiano e maggiordomo e un “set” di cibo (vero). Secondo la credenza, nei primi sei giorni l’anima prende e porta con sè tutto ciò di cui avrà bisogno nell’aldilà e il settimo giorno si puo procedere con il funerale. In questo ultimo giorno, casa, soldi, iPhone finti e computer di carta vengono bruciati, mentre il cibo viene spartito tra i familiari. 

Casa di cartone per la veglia funebre
Dettaglio della casa dell’aldilà
 

Ah, il cibo! E noi che pensavamo che solo gli italiani fossero fieri delle loro pietanze! Torta di sangue di maiale, zampe di gallina, zuppa di sangue d’anatra, tendini di maiale, tofu puzzolente, uova fermentate…Quella che potrebbe sembrare una formula per qualche sortilegio, sono invece i piatti forti della cucina taiwanese.. Ovviamente non solo questo, ma avendo nutrito per mesi grandi aspettative (persino in Giappone ne millantavano le prelibatezze) non possiamo nascondere che inizialmente non sapevamo come districarci tra le varie offerte, ma piano piano, come sempre, abbiamo imparato ad apprezzarne alcuni piatti – fino a diventarne quasi dipendenti – come i “ma-jiang mien” ovvero noodles alla salsa di sesamo, ravioli di verdure e funghi con ginger, tofu di ogni qualita (alla fine anche lo “stinky tofu” è entrato nelle nostre grazie), pancake di scalogno e torta di ananas. 

Zuppa di sangue d’anatra
Ma-jian-mien, noodles con salsa di sesamo e arachidi
Zampe di gallina
 

PILLOLE Giappone

Toilette pubblica nella stazione dei bus di Osaka

La carta igienica si butta nel wc (era dall’Italia che non lo facevamo) 

Nei bagni ci si siede sempre, anche quello della stazione o quelli pubblici delle metro. Sono sempre puliti. 

L’asse del gabinetto è riscaldata ed è forse questo il motivo del punto due. 

Nei bagni “alla turca” invece ci si accuatta al contrario, generalmente con la faccia verso il muro. 

Ovunque si trovano distributori di lattine di bevande freddo (tasto blu) e bevande calde (tasto rosso)
 

Prendere e dare i soldi con due mani, in segno di rispetto

Nei ristoranti l’acqua del rubinetto è gratis 

I cuochi usano un asciugamanino a mo’ di fascia/bandana 

 

Quando si mangiano i ramen, è buona educazione fare molto rumore risucchiandoli. Inoltre, è una tecnica utile per raffreddarli!

Fuori da ristoranti (ramen e pasti veloci) oppure onsen (e alcuni hotel) ci sono delle macchinette dove fare un ticket decidendo e pagando quello che si vuole mangiare. Poi si entra e si consegna il bigliettino. 

Se non sapete leggere il menù, nessun problema. Fuori da ogni ristorante ci sono sempre delle riproduzioni dei piatti molto veritiere! 


 

Nei locali ci sono spesso ceste/scatole per mettere borse giacca etc 

Il sake viene versato in un bicchierino e fatto traboccare nel piattino sottostante. Finito di bere dal bicchiere, si può bere direttamente dal piattino o rovesciarlo nel bicchiere.

Da 7eleven si può prelevare con circuito internazionale. (Non è così semplice trovare bancomat per stranieri)

Fare l’inchino è una cosa molto comune per dire sì, grazie, scusi etc. Anche i cartelli stradali hanno disegnato un omino che si inchina, probabilmente è il nostro “ci scusiamo per il disagio” 

Sulle scale mobili di Tokyo si sta a sinistra, ad Osaka si tiene la destra. 

Le finestre delle case sono scorrevoli. 

Le porte scorrevoli automatiche alle volte hanno un pulsante da schiacciare per farle aprire 

In ascensore, il primo piano è quello che noi chiamiamo piano terra, il secondo è il nostro primo e così via 

Nelle case, molte volte le lampade al soffitto si accendono tirando la corda 

La verdura e la frutta sono vendute al pezzo. E che prezzo! 

Due papaie 6400yen-55€ circa. E pensare che questa foto è stata scattata a Okinawa, ai tropici e in stagione!
 

Se una parola inglese finisce con una consonante, è praticamente impossibile che un giapponese la pronunci senza aggiungere alla fine una “o” e raddoppiando la consonante. (Lot=lotto)

 

Sono inoltre comuni errori nelle insegne: hamburg, restrant e così via 

Sull’autobus si paga quando si scende 

Le biciclette possono circolare sui marciapiedi 

Per agevolare la riuscita del parcheggio – che viene fatta sempre in retromarcia – ci sono dei blocchetti di cemento che stoppano le ruote

Tutti i barbieri hanno all’esterno una “colonna rotante” blu rossa e bianca, come in America

 

A Kagoshima si mangia il pollo crudo 

L’unica cosa che i giapponesi sanno in italiano (senza molte volte sapere che sia italiano) è “Buono buono!” puntando il dito indice sulla guancia, come noi facciamo con i bambini. (non abbiamo mai scoperto il perchè!) 

Compagnia di naviganti e sognatori

 

Il villaggio di Kura conta trentaquattro anime. Per una fortunata coincidenza autostoppistica noi ne abbiamo conosciute due, Yoshi&Akemi. 

Passeremo le nostre ultime giornate sull’isola di Ishigaki a casa loro, testimoni del ritmo lento e produttivo che dà vita al “sabani”, l’imbarcazione tradizionale dei pescatori di Okinawa. Mentre Yoshi e i suoi due aiutanti armati di scalpello lavorano travi di legno, Akemi fà magie in cucina deliziando ogni intervallo con cibo di ispirazione indiana e sfruttando tutte le erbe del giardino, ma appena fiuta l’occasione di imparare una ricetta italiana ci spalanca le porte della cucina. 

In cucina con Akemi
La preparazione degli gnocchi di zucca
Akiko felice del pranzo italiano! Gnocchi di patate al pomodoro e gnocchi di zucca al burro e rosmarino
Ananas, crèpes con marmellata e succo di finocchietto selvatico
 

Sono trascorsi ormai cinque anni dal giorno in cui Yoshi bussò alla porta del mestro Arashiro di Ishigaki, già ottantenne, e depositario della tecnica della costruzione del sabani. Da quel giorno le due passioni di Yoshi, il legno e il mare, si sono unite ed è iniziata la sua nuova vita. Ci racconta di come sia sempre stato affascinato dal legno mentre ci mostra il tamburo scolpito durante uno dei suoi soggiorni in India, a Rishikesh, nella stessa scuola in cui Hiro (che coincidenza! È stato Hiro a farci assaggiare le vipere a Iriomote) ha imparato a fare i deejiridu. 

 

Il sabani è interamente costruito in legno, non vi è alcuna parte metallica – nessuna, nè viti nè chiodi- e la sua tecnica di costruzione varia leggermente da costruttore a costruttore ed ha subito alcuni accorgimenti nel corso del tempo. 

 

Un tempo costruiti utilizzando solo il pan’noki (albero del pane), ora sono un mix di diversi legni: il sughì (cedro rosso giapponese) per lo scafo e per l’albero, il terihaboku (calophyllum inophyllum) – estremamente duro e resistente – per la base dell’albero. 

In sostituzione dei chiodi, clessidre di inumaki (podocarpus macrophyllus, “chaghì” nella lingua locale) impediscono il distacco dei pezzi assemblati, mentre dei “ganci” di bambù, grazie alla loro elasticità, impediscono il movimento laterale. 

La fase di inserimento della “clessidra”
Yoshi all’opera
 

I remi, competenza di Akiko e Kimi, sono leggeri e resistenti, caratteristiche tipiche del maruba (ehretia dicksonii hance, “zakughi” in lingua locale) 

Akiko
Kimi
 

Yoshi ci confessa però di voler tentare la costruzione di un sabani con il solo legno dell’albero del pane nel prossimo futuro. Ci fa vedere inoltre una foto di un sabani degli anni ’60 e ci fa notare il colore nero delle vele. Se quelle di oggi sono di tessuto sintetico, un tempo erano di cotone imbevuto nel sangue di maiale – per questo il colore scuro – per rendere la trama più fitta e offrire maggior resistenza al vento. 

Fino a pochi anni fa vi erano solo due maestri a continuare la tradizione: Arashiro ad Ishigaki – ormai in pensione – e Itoman a Okinawa – sessantenne ed ancora in attività -. La rinascita dell’amore per quest’arte ha fatto si che ad oggi i sei discepoli di Arashiro – tra cui Yoshi – e sempre nuovi allievi di Itoman perpetuino questa antica tecnica. 


Tropicalizzati

Yaeyama Palm

Con occhialini e pelle d’oca ci immergiamo nell’acqua. L’apnea intermittente ci regala spezzoni di un film muto in cui pesci colorati fluttuano tra grossi cervelloni ocra, ma quando il serpente zebrato (mortale, ma pare non aggressivo) si insinua nella scena, le oniriche visioni subacquee lasciano il posto ad annaspanti boccate in cerca di terraferma. 

La spiaggia di Yonehara

 

Su questa stessa spiaggia il nostro vicino di tenda Harry ogni sera all’ora del tramonto e in solitudine intona canzoni popolari malinconiche, nella antica lingua di Okinawa.

Siamo a Yonehara, nel nord dell’isola di Ishigaki, meta perfetta per il diving e ad un passo dalla meravigliosa baia Kabira. 

Kabira Bay

Con la bassa marea il reef diventa un campo di raccolta di alghe e conchiglie
 

L’atmosfera è di quelle che ti fanno dimenticare di orologio e calendario, ma c’è qualcosa che ci spinge verso quel dito sottile che indica nord. A Kura c’è una spiaggia che guarda perfettamente a ovest, e da lì vogliamo guardare il tramonto questa sera. 

Ormeggiate a pochi metri dalla riva, due imbarcazioni fuori dal tempo attirano la nostra attenzione, ma questa è un’altra storia e un altro articolo….

 

Arroccato sopra la spiaggia, il nostro hotel a cinque stelle: un prato, bagni e docce, e un gazebo con tavolo e sedie. Non un campeggio ma un ristorante che non aprirà fino alla fine del mese
Il “granchio del cocco”, un notturno vicino di tenda
Il faro di Hirakubo