Questo vento non è forte come quello del deserto Taklamakan, vero?”
Cerchiamo di rassicurarci sulla tenuta della nostra tenda mentre nel cuore della notte pare che qualcuno abbia direzionato un idrante e una macchina del vento contro di noi. Il frastuono dello scroscio ci impedisce di parlare a bassa voce.
Quando finalmente si fa mattina veniamo sorpresi da uno strano grido: “Uuuuuuuhuuuuuuuuuuuu”
“Ma questo secondo te è un bambino?
Scopriremo poi che siamo nel pieno della stagione delle piogge – meno male non quella dei monsoni – e che l’urlo dalle curiose scale melodiche è il richiamo del piccione verde che si sposta mimetico nella giungla. Ma non è l’unica nostra sveglia: con le prime luci dell’alba echeggia una risata sonora, con un lieve accento diabolico e una scarica di mitragliatrice. È il martin pescatore, che vola veloce e sicuro effettuando millimetirche traiettorie a filo di rami stile stukas, arrivato in questi giorni sulle isole lungo la sua rotta migratoria. Anche i corvi si guardano bene dal farsi trovare sulla sua strada: quel ghigno e soprattutto quel becco non perdonano.
Il “martin pescatore rugginoso”, “akashobi” in giapponese
Il passaggio dalla città alla selvaggia isola di Iriomote è stato breve come un battito di ciglia. All’inizio, allarmati dal pericolo della vipera e di altri serpenti che infestano l’isola, facevamo fatica a camminare scalzi. Ma altrettanto breve è stato l’adattamento alla mancanza di elettricità e all’esplosione di natura.
Il “serpentario crestato”, il rapace specializzato nella caccia ai rettili
Accendiamo il fuoco e mentre facciamo bollire l’acqua per il tè, con farina e acqua prepariamo del pane. Solita partita a backgammon e poi inizia la giornata: la spiaggia è lunga, selvaggia, una lingua oro e ruggine tra il verde e il turchese.
Approfittiamo della bassa marea e sotto la guida silenziosa e sorridente di Kaneco scaviamo nel bagnasciuga in cerca di vongole. Lui le prepara con sake e aceto, noi olio e aglio e ci condiamo gli spaghetti. Nell’acqua invece raccogliamo il “mosuku” – un alga marroncina e viscida – e non avendo minimamente idea di che farne, prendiamo spunto dal nostro maestro: ginger e salsa di soia. Oishi! (delizioso in giapponese)
Kaneco-san il giorno della partenza
Dal campeggio di Haemida Beach, ci spostiamo verso la parte settentrionale dell’isola, percorrendo a tappe e in autostop l’unica strada costiera.
Camminata tra le mangrovie con la bassa marea per proseguire poi nel sentiero che conduce alla cascata Pinaisara(sullo sfondo)
Il “saltafango”
La cascata Pinaisara (55mt)Spiaggia Tsukigahama, sulla costa nord ovestLa baia di Sonai
Abbiamo portato solo l’indispensabile nello zaino, faremo infatti tre notti di free-camping prima di intraprendere il trekking in mezzo alla giungla che taglia l’isola da nord a sud. Il sentiero è ben segnalato con dei nastri fuxia, ma pare che parecchie persone si siano perse e per questo è necessario recarsi all’ufficio di polizia per ottenere un permesso. Prendiamo la prima imbarcazione delle 9.30 che risale il fiume Urauchi che si addentra nella foresta e in mezz’ora arriviamo all’inizio del sentiero. Da qui per otto ore saremo immersi in una vegetazione fittissima intermezzata da cascate e guadi, mangrovie e fango, circondati da mille farfalle e accompagnati da lucertole dalla coda blu o dalla pancia gialla, rane saltellanti e fortunatamente nessun serpente velenoso.Risalendo il fiume UrauchiLa cascata Maryiudo
Io sono sulla foglia giusta e tu non mi vedi, vero?La vista della foce del Nakama ci fa capire che siamo quasi arrivati
Ritornati al campeggio, la rudimentale vasca da bagno (costituita da un barile di latta sopra un fuoco a mo’di pentolone dei cannibali) e la cucina spartana ci sembreranno a dir poco un lusso.. Vipere alla griglia. Tra gennaio e aprile ci pensano i tagliatori di canna da zucchero a ridurre la popolazione di serpenti velenosi (gli atri infatti vengono risparmiati): quando la lama dei loro macheti incontra la lingua biforcuta, un taglio netto recide la testa e con essa il veleno, il resto finisce alla griglia.
Altri giorni di relax alla Robinson Crusoe e poi, in perfetto stile di quest’isola, un pipistrello – grosso come un bambino di due anni – appeso su un ramo a testa in giù a qualche metro di distanza ci osserva mangiare un po’ di sashimi sulla panchina del porto, la notte prima di imbarcarci per Ishigaki.
Il vero fiore all’occhiello del viaggio in Giappone, nonché sottile linea rossa che ha tracciato il nostro itinerario da nord a sud, sono stati gli onsen.
Queste sorgenti termali sono sparse per tutto il Paese ed andarci è un’abitudine radicata e popolare, per nulla elitaria. Il prezzo può oscillare dal gratuito per gli onsen più spartani a 1300 yen (10€) per quelli più grandi e ricercati, dotati magari di un rotenburo (vasca all’aperto) con vista panoramica.
L’onsen prevede solitamente un ingresso (dove vengono lasciate le scarpe in appositi armadietti) e due aree separate per uomo e donna all’interno delle quali vi è uno spogliatoio con armadietti e ceste, lavandini, bilancia e asciugacapelli. Da qui si accede all’onsen vero e proprio (l’uso del costume da bagno è assolutamente vietato): entrando ci si munisce di sgabello e scodella e ci va a sedere di fronte a una postazione dotata di rubinetto, doccino e shampoo. Il lavaggio è generalmente molto accurato, ci si strofina energicamente con un asciugamanino – lo stesso che poi viene piegato e appoggiato sulla testa per entrare in acqua e con il quale ci si asciuga prima di rientrare nello spogliatoio – e può prevedere depilazioni con rasoio, lavaggio di denti e tutto ciò che si farebbe a casa propria. La struttura di solito mette a disposizione shampoo e bagnoschiuma, ma generalmente ognuno arriva munito di un cestino di plastica con i propri prodotti.
Classico ingesso all’onsen: in questo caso uomini a sinistra e donne a destraLo spogliatoio del Seiryuusou Onsen
Finito il lavaggio e eliminata ogni traccia di sapone inizia l’immersione nelle più svariate combinazioni di vasche d’acqua a varie temperature, vasche idromassaggio, saune e vasche ghiacciate. Gli onsen più autentici e vecchi però sono un’esperienza totalmente diversa.
Il Takegawara, l’onsen più vecchio di Beppu Onsen (1879) all’interno del quale è possibile fare anche i bagni di sabbia: con indosso un kimono di cotone, si viene ricoperti di sabbia calda per una decina di minuti
Se finite in paesini come Nozawa Onsen o Beppu Onsen, gli onsen non sono altro che un’unica sala dove vi spoglierete prima di sedervi in terra tra un rubinetto di acqua – alle volte fredda- e la vasca di acqua termale. Nati per permettere alla gente senza bagno in casa -cosa tutt’ora non così rara- di lavarsi, offrono un’atmosfera semplice e di condivisione lungi dalla mondanità dei rotenburo più rinomati.
Piccolo onsen gratuito nel villaggio di Myoban, sulle colline dietro Beppu Onsen, dall’acqua super acida.
A chiudere il rituale dell’esperienza è la sala relax – che non si trova però ovunque – dove distendersi sul tatami e godersi uno dei sonni più riposanti che abbiate mai sperimentato. Spesso e volentieri sono presenti anche poltrone massaggio se non un vero massaggiatore. Avendo viaggiato in inverno e campeggiato ovunque, questi bagni pubblici sono stati la nostra salvezza e coccola quotidiana!
La sala relax di Dogo Onsen, Matsuyama. Per ironia della sorte, questa è stata l’unica volta che non ci hanno fatto dormire. Dogo Onsen è molto famoso e richiama un sacco di turisti. A nostro parere, uno dei peggiori!
Ecco una selezione degli Onsen più belli dove siamo stati:
Koikawa Onsen (Moiwa, Hokkaido) dalle acque ferrose e torbide.
Goshiki Onsen (Annupuri, Hokkaido) niente fronzoli, con due vasche interne e un rotenburo dalle acque quasi ustionanti.
Takegawara Onsen (Beppu Onsen, Kyushu) con un’unica vasca ma dall’atmosfera affascinante.
Seiryuusou Onsen (Kikuchi, Kyushu), piccolo e raccolto rotenburo dalle acque oleose.
Tamatebako Onsen (Ibusuki, Kyushu) con un rotenburo dalle acque salate e con vista sull’oceano e sul vulcano Kaimondake.
Nb: è vietato scattare fotografie, siamo riusciti a farne qualcuna solo in quelli in cui eravamo soli!
Impossibile raccontare per filo e per segno tutto quello che abbiamo vissuto percorrendo i 1400 chilometri che separano Tokyo da Kagoshima, ma ci siamo sentiti in un vortice fortunato. Spostandoci in autostop e campeggiando in qualsiasi fazzoletto d’erba ci si presentasse innanzi – e avendo avuto di conseguenza poche occasioni per impigrirci – abbiamo girovagato con e senza una meta precisa per più di un mese.
Guidati da amici di amici o da persone appena conosciute abbiamo avuto modo di pedalare in una primaverile e magnifica Kyoto, di assistere al festival del fuoco a Nara, di dormire in una stanza tradizionale a casa di una famiglia che ci ha letteralmente raccattato sulla strada e di essere accompagnati dalla stessa l’indomani sul monte Koyasan (uno dei luoghi più sacri del buddismo giapponese), di perderci nei quartieri più autentici di Osaka, di unirci ad escursioni intorno alla caldera del vulcano Aso e di ammirare salamandre e cavallucci marini con una famiglia prima di scalare il perfetto e conico vulcano Kaimondake.
Kyoto, pagoda del Senso-jiKyoto, per le vie del centroKyoto. Prugni in fiore all’interno del giardino del tempio Kitano Tenman-gu Prove di una danza tradizionale eseguite al ritmo di battito di maniTetsuya, nella memorabile serata tra le isakaye di KyotoFoglie di cavolo con soia e sperma di pesce frittoKyoto, la foresta di bambù di Arashiyama
Nara, tempio buddista Todai-jiIl parco pubblico di Nara (nostra dimora per tre notti), abitato da cervi tutt’altro che timidi.Otaimatsu: questo il nome dell’evento che si tiene sui balconi del Nigatsu-do (un edificio facente parte del tempio Todai-ji). Appena dopo il tramonto vengono portate in sequenza da una parte all’altra del balcone una decina di enormi torce che bruciando provocano una pioggia di braci e zampilli la cui visione, secondo la credenza, porterebbe fortuna per il nuovo anno.Sul balcone del Nigatsu-do, aperto al pubblico dopo aver spento le torce
Okunoin, il più grande cimitero di tutto il Giappone, nel complesso monastico sul monte Koyasan
OsakaOsaka, con Rie in un piccolo bar che colleziona e appende i reggiseni delle avventrici
Il castello di Himeji Il ginko millenario di AsoIl vulcano Aso
Il monte Komezuka
Santuario Kamafuta (letteralmente”coperchio di pentola”). Secondo la tradizione è di buon auspicio riuscire a camminare con un coperchio in equilibrio sul capo dal Tori (tipico ingresso dei tempi scintoisti) al Jinjia (il tempio vero e proprio)Kaimondake (924 mt). Chiamato il “piccolo Fuji” per la perfetta forma conica.
Nei due mesi centrali del nostro lungo e inaspettato soggiorno in Giappone – un intermezzo tra la neve di Hokkaido e le acque tropicali di Okinawa – siamo riusciti a sfatarne dei miti e scoprirne di nuovi. Lungi dall’essere un paese ipertecnologico e avanguardista – a parte per le toilette futuriste – ci ha lentamente conquistato e fatto sentire un po’a casa, perché nonostante le due culture siano agli antipodi, c’è una sottile somiglianza al Bel Paese e al suo stile di vita. Diciamocelo, ai giapponesi piace mangiare, bere e stare in compagnia. Che poi abbiano una gentilezza innata e un’onestà fuori dal comune ha reso il tutto molto più facile. Senz’altro schemi più rigidi regolano le relazioni interpersonali, soprattutto nel mondo del lavoro, e non è raro assistere a congedi ricchi di inchini, ma in quanto stranieri e turisti questo non è stato altro che un dettaglio pittoresco.
Abbiamo lasciato l’isola di Hokkaido e siamo sbarcati al porto di Nigata, sulla costa occidentale. In compagnia dei nostri due amici canadesi Tay e Jake abbiamo noleggiato una macchina, direzione Tokyo.
Ci siamo fermati campeggiando due notti nel paesino di montagna Nozawa Onsen, un villaggio con ben tredici bagni pubblici gratuiti. Tre immersioni quotidiane ci hanno permesso di mantenere una piacevole temperatura corporea durante il nostro vagabondare.
L’ingresso di uno degli onsen. Nella cassa di legno sulla destra, è possibile mettere le proprie uova affinchè si cuociano !La vista al risveglioJigokudani Monkey Park
Quando siamo arrivati sotto il monte Fuji, con un tempo talmente infame che ci impediva persino di capire da che parte avrebbe dovuto svettare, prima che montassimo la tenda un vento miracoloso ha spazzato via nuvole e neve e dopo poco siamo riusciti a vederlo in tutta la sua bellezza.
A Tokyo ce la siamo spassata tra un locale e l’altro, di sera, mentre di giorno – con una mano sul cuore e una sul portafoglio – dopo un’estenuante ricerca abbiamo comprato due nuove lenti per la macchina fotografica e sostituito un iPhone. Per il resto è esattamente come ce l’aspettavamo: immensa e brulicante di persone affaccendate.
Il barista segue indicazioni per preparare un NegroniUno dei microscopici locali del quartiere Golden Gai, dove si entra, si beve e si esce.Sushi bar
Uno scorcio di una bancarella nel mercato del pesceAffilatura di coltelli sempre nel mercato del pesce
Fioritura dei prugni nel Yoyogi Park
Visto il continuo posticipare la partenza e il conseguente scadere del visto, abbiamo dovuto con piacere volare ad Hong Kong dai nostri amici Cata e Adriana, occupare il loro salotto per una settimana e farci viziare prima di ritornare a viaggiare in terra nipponica.
Lungo la camminata nel Lantau Country Park, perchè Hong Kong non è solo grattacieli! Tian Tan BuddhaVista della città da sotto il Kawloon Peak
Il ritornello della canzone dei The Kings risuona nelle nostre teste dopo che così, quasi per scherzo, il nostro camper è stato ribattezzato.
Looo-laa L.O.L.A looo-laa
Tay
Finestrini abbassati nonostante le temperature e si parte. Verso Nord. Più esattamente Rishiri Island. All’inizio non ne sapevamo pronunciare nemmeno il nome – era stato un consiglio dato all’ultimo dall’amico giapponese Ibasan – ma il fascino suscitatoci da questo vulcano in mezzo al mare ci ha spinto a correre giorno e notte lungo una strada costiera spazzata da neve e vento e riparaci per un breve riposo nel porto di Wakkanai in attesa del traghetto.
Scott
Jake
“Se il tempo non è dei migliori però ve la sconsiglio” era la seconda parte del suggerimento, ma a noi non era interessato ascoltarla. La sete di avventura era ormai tornata, troppo tardi per dubbi e ripensamenti, mettiamo le pelli e iniziamo a salire. Lo scricchiolio della neve sotto gli sci è l’unico rumore udibile nel primo tratto in mezzo al bosco ovattato, e in fila come formiche colorate risaliamo il morbido pendio ai piedi di svettanti secolari abeti.
Colton
PepBryan
PeteAppena usciamo dal limite del bosco, che più che altrove segna il limite della sopravvivenza, tutto cambia: il vento che soffia senza tregua dalla Siberia – e che lì non riusciva a penetrare – porta con sè nubi dense e veloci e un gelo che attacca le palpebre.
Ed eccoci lì, in quello che più ci fa sentire vivi, a contemplare la tempesta di neve in arrivo dall’oceano, a godere e ridere guardandoci intorno increduli e presenti come non mai in quell’attimo prima che la tempesta ci inghiottisca.
Looo-laa L.O.L.A looo-laa
Esattamente così siamo stati accolti sull’Asahidake e Tokachidake, ma ogni volta abbiamo voluto sfidare il freddo per poi ritrovarci esausti a fine giornata in quello che rende ancora più unica l’esperienza invernale in Giappone: l’onsen. Qui ci siamo viziati ogni sera, sguazzando nelle pozze di acqua bollente a volte sotto una fitta nevicata, altre ancora contemplando le stelle.
Sciare di notte, saltare i paravalanghe o i bordi dei marciapiedi, giocare a carte, cibarsi di snack ad ogni “convenient store”, ridere e ancora ridere. Una settimana indimenticabile.
Hokkaido, finalmente. Tre navi per un totale di sessanta ore in mare in quattro giorni, uno stop over di 24 ore in Korea (dove abbiamo dormito in una scuola di inglese), e tante tante onde. Abbiamo infatti imparato che l’inverno è la stagione del surf nel mare giapponese settentrionale e il viaggio verso nord è rinomato per non essere adatto a chi soffre di mal di mare.
Ma eccoci qui, nella mecca della powder, desiderosi di metterci gli sci ai piedi e, udite udite, di lavorare. Dopo tanti mesi di spostamento ci voleva una pausa e un ritorno ad una pseudo-normalità. L’idea era quella di ripartire con l’inizio dell’anno nuovo ma quello che abbiamo vissuto è stato cosi coinvolgente che malinconicamente abbiamo lasciato quest’isola solo a metà febbraio.
Ma andiamo per ordine.
Workaway è un sito di work exchange, ovvero si lavora part time in cambio di vitto e alloggio. Generalmente si tratta di famiglie o piccole realtà che hanno bisogno di una mano per fare dei lavoretti, noi siamo capitati invece con Scott Walker, il genio del male che gestisce più attività (ristoranti, bed&breakfast, scuola di sci etc..) sfruttando la manovalanza a costo zero che, attratta e acciecata dalla possibilità di sciare la neve più soffice del globo (oltre a vitto e alloggio si ha anche uno skipass a turno), si reinventa una professione improvvisandosi carpentiere, muratore, imbianchino, cameriere, chef, autista, addetto alla pulizia e così via. Nel clou della stagione saremo stati una cinquantina di “volontari”, sparpagliati in diverse sistemazioni. Australia House, il fulcro di tutto, si trova in posizione strategica ad Hirafu, un villaggio alla base delle piste da sci.
Australia HouseQui abita Scott, ci sono camere per gli ospiti paganti e in ogni angolo del sottotetto ed in condizioni di dubbia sicurezza sono stati ricavati posti letto per lo staff.
Poi c’è Forest Star, sempre ad Hirafu – ma in posizione un po’ decentrata – la casa del degenero dove lo zoccolo duro multinazionale non faceva mai scendere il tasso alcolico. Qui si sono svolte le feste più importanti ed è stata teatro di innumerevoli incidenti, jam session, atti vandalici, tresche amorose e azioni cavalleresche. Vale forse la pena ricordare tra tutte il tentativo di discesa della scale con pannello della porta della cucina a mo’ di surf.
Poi ci sono le sistemazioni a Kutchan, ad una decina di chilometri da Hirafu. “Kutchan House” (la nostra), con 13 posti letto, una doccia, un wc e un solo lavandino (in cucina) con annessa mensola per spazzolini e dentifrici e “Kutchan Kitchen” così chiamata per via di una fantomatica cucina adiacente agli appartamenti per lo staff che sarebbe servita per preparare del cibo da vendere poi ad Hirafu (in un nuovo piccolo take-away proprio in fronte ad Australia House) ma che, si vocifera per assenza di permessi, non è mai entrata in funzione creando in Scott un certo disappunto per l’esubero di staff da gestire.
Kutchan house
Lo staff di Kitchan House
Appena siamo arrivati, a fine novembre, abbiamo iniziato a lavorare di mattina in un cantiere. Una casa (quella che poi è diventata Kutchan Kitchen) che aveva bisogno di essere sistemata. Ci siamo inventati la posa in opera di un pavimento, abbiamo aggiustato serramenti e finestre, imbiancato e scartavetrato ogni angolo e da metà dicembre siamo stati spostati nel ristorante Kabuki 1 (più economico, in cui ogni tavolino ha un “teppan” e i clienti si preparano da soli la cena) e Kabuki 2 (all’interno di una grossa yurta, con due grossi “teppan” centrali dove due chef cucinano).
Kabuki 1 e Kabuki 2Staff meal in Kabuki 1Okonomiyaki
La cucina di KabukiFesta di Natale in Kabuki 2
Oltre ad avere un pasto assicurato tutti i giorni, lavorare di sera ci ha permesso di avere tutte le mattine libere da dedicare allo sci, non solo nel comprensorio di Hirafu ma anche a Moiwa, Rusutzu e Kiroro.
Peack Annupuri, con i nostri “skybuddies” Rob&Lou MoiwaKiroroKiroroKiroroKiroro
Kiroro (photo by Rob Shrosbree)Kiroro (photo by Rob Shrosbree)RusutzuRusutzu
Partenza alla stazione di Ulan-UdeFortunatamente siamo saliti preparati. Tra di noi e le tre grasse signore del nostro scompartimento di terza classe è stata una guerra ad armi pari. Sulla transiberiana infatti si mangia. La vita è cullata dallo sferragliare sui binari e c’è ben poco altro da fare, a parte giocare a carte (loro), backgamon (noi), scrivere o leggere.
Abbiamo passato tre notti e tre lunghi giorni relegati ad un letto nel posto corridoio, senza un minimo di privacy e spostando i piedi o le spalle per l’andirivieni continuo del mezzo vagone di militari odorosi (nel senso pieni di odori) che facevano spola verso la terra di mezzo dove, previa la corruzione della responsabile del vagone, era possibile fumare. Sì perché ogni carrozza ha una sorta di hostess, che nulla ha che vedere con l’immaginario comune: senza sorrisi e corpo longilineo, il mastino supervisiona sulla pulizia e sull’amministrazione di posti e coperte e, probabilmente per arrotondare, obbliga all’acquisto di qualche gadget – con un piccolo sovrapprezzo – chiunque necessiti di un favore extra. Se a tutti i militari sono state vendute delle tazze per poter fumare una sigaretta, a noi è toccato un pupazzetto per poter sfruttare un angolino del frigorifero e conservare uova sode, formaggio e cetrioli.
Le brevi soste durante le quali è possibile scendere dal treno servono per rimpinguare le scorte o sgranchirsi le gambe. Sui binari è facile trovare venditori ambulanti di pesce essiccato o uova di pesce, oppure panzerotti fritti.
L’alternarsi di generazioni che per motivi a noi sconosciuti viaggiano da un capo all’altro del paese non può far altro che portarci a ricamare storie di fantasia. E allora ecco che il vecchio sommergibilista senza una gamba ma con stampelle di legno e spalle larghe (che senza l’aiuto di nessuno era salito con due valigie enormi e le aveva spinte con l’unica gamba stando in bilico sulle ascelle) racconta le sue avventure affascinando i giovani e rievocando in un’altra anziana coppia il ricordo di anni passati. La ragazza che piangeva baciando lasciva il suo amore sul binario ora sorride e ha una tresca con uno dei militari che probabilmente l’aspettava già a bordo. I poliziotti saliti per un controllo random si soffermano a guardare la barba di Marco e farfugliano “islamisky”, ma le tre signore sempre più grasse – che da un dettaglio di una scatola di cioccolatini arzigogoliamo che siano di ritorno da una vacanza in Kazakistan – li scacciano dicendo che siamo turisti e che siamo italiani. Come se fosse un sottofondo in nostro onore, aleggiano a ritmo cadenzato le canzoni di Totò Cutugno. E questa non è fantasia, ma lo stereo del mastino.
Fuori dal finestrino regnava la patina biancastra del gelo e le fumate vaporose di ciminiere e caminetti segnalavano un’immobile presenza umana, ma sono state proprio la monotonia del paesaggio e il rumore ipnotico delle rotaie a fare da cornice alla vita nel convoglio, che è stata la vera essenza di questo viaggio. Video sulla transiberiana
Quando arriviamo a Vladivostok è ancora notte, aspettiamo le prime luci dell’alba con la testa ciondolante sulle poltroncine della stazione. L’indomani ci aspetta il traghetto che ci staccherà dalla terraferma. Lasceremo il continente euroasiatico dopo nove lunghi mesi.
Dicono che il momento migliore per visitarlo sia l’estate, con le giornate lunghe e le spiagge assolate.
Altri sostengono che sia l’inverno, per via del lago completamente ghiacciato e di quelle temperature estreme che incarnano l’essenza della Siberia.
Ma a noi il lago Baykal non poteva apparici più strabiliante di così, in questa mezza stagione tardo autunnale.
Tutti i turisti che abbiamo incontrato e che arrivavano da Mosca sono passati per Irkutsk, sulla costa occidentale.
Noi per mancanza di tempo e linearità dello spostamento (non sopportiamo l’idea di fare avanti e indietro sulla stessa strada) decidiamo di dar retta ad un veloce consiglio datoci via email da un membro di couchsurfing di Ulan-Ude (la città più fredda dove siamo mai stati) e andiamo sulla costa est, precisamente a Goryachinsk, senza sapere che ci saremmo imbattuti in un villaggio di casette di legno costruito intorno ad un’importante sorgente termale. La stazione di Ulan-UdeLe strade di GoryanchiskLa bancarella nel centroLa camminata verso il lagoUno dei tanti uccellini tutt’altro che impauriti (cinciallegre?)Pescatori in lontananza
Due moto. Nulla come due ruote sotto il sedere e le sferzate di aria in pieno viso danno il senso di avventura e libertà. Alla guida di una delle due Bayarhu, competente, veloce, sicuro. Sull’altra un personaggio sorridente ma traballante, sempre a gambe larghe (meglio che all’aria) che affronta con poca spavalderia le gobbe e le buche della pista. Un’ora e mezza, bardati come mai, ed iniziamo ad addentrarci nella taiga. La pista diventa un sentiero di fango congelato coperto da un leggero strato di neve, i guadi dei torrenti sono lastre di ghiaccio e la vegetazione inizia a farsi più fitta.
Arriviamo in una radura, ma sembra un campo abbandonato, quasi desolato. Qualche bambino, dei cani lupo, un anziano: rivolgono a mala pena la parola a Bayrahu che chiede dove sia il campo. I nostri timori sulla tensione tra di loro iniziano a rivelarsi fondati e temiamo di non essere accettati e di dover tornare indietro. Fortunatamente il nostro centauro barcollante sembra aver mantenuto migliori i contatti con gli Tsaatan (letteralmente gli “uomini-renna”) e dopo una telefonata ci guida sicuro attraverso un sentiero in mezzo a larici dorati: bambini dai sorrisi viola di mirtillo spuntano da dietro i cespugli e alcune renne fanno capolino. Una radura ancor più ampia si apre davanti a noi e si iniziano ad intravedere quattro o cinque tende tipiche di questa tribù nomade, più simili ai “teepee” degli indiani d’America che alle classiche “gher” mongole.
Pensavamo che l’accampamento fosse più grande, ma in breve scopriamo di essere arrivati nel posto giusto, dagli Tsaatan di Gombo – il capo tribù e amico di David-, e ci infiliamo nella tenda di Ocerbat per le presentazioni.
Una coperta di feltro ci separa dal terreno; ci accomodiamo intorno alla stufa e sorseggiamo del tè salato (qui si usa così), che dopotutto non è così male. Come si può ben immaginare, l’arredamento di “casa” Ocerbat è senza fronzoli: una pelle di mucca rettangolare, una piccola panca rudimentale con le scorte di cibo (farina, zucchero, sale e lievito), delle vecchie pentolacce una sopra all’altra e alcuni sacchetti appesi alla struttura in legno – onde evitare la curiosità impertinente dei cani – contenenti pane e borzog, delle sorte di piccoli panini dolci fritti.
Nonostante la comunicazione resti l’ostacolo più grande, Ocerbat ci mostra dove prendere l’acqua – c’è un torrente ghiacciato ad un centinaio di metri con un buco da cui attingere – e spontaneamente lo aiutiamo a spaccare la legna. Con un piccolo quadernino e una biro iniziamo a dare forma al nostro personale vocabolario illustrato della taiga.
Ocerbat
Quando la giornata sta per terminare, uno strano fermento dilaga per tutto il campo. Stiamo per assistere per la prima volta allo spettacolo che ci accompagnerà continuando a meravigliarci nelle sere a seguire: l’arrivo delle renne dal pascolo. Sono più di un centinaio, sbucano inaspettatamente e silenziose dal bosco e nella luce del crepuscolo uomini, ragazze, bambini e anziane si sparpagliano con in mano rumorosi sacchettini di sale che fungono da dolce inganno per attrarre a sé gli animali. Quello che prima sembrava un immobile accampamento fermo nel tempo e nel gelo, è ora vita, tradizione, equilibrio e pace.
Gombo e la moglie (“finestra”)
Toula, la donna più anziana della taiga
C’è voluta una mattina intera per imparare a fare il nodo che gli Tsaatan fanno – in un batter d’occhio – per legare le renne, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, con non poche risate dei ragazzini ad ogni nostro fallimento.
Il taglio delle corna dei maschi, o meglio di parti di esse, avviene solitamente al rientro delle renne dal pascolo in questo periodo dell’anno, quello degli amori. Questa pratica può sembrare barbara e dolorosa ma risulta necessaria per evitare eventuali ferite ben più gravi nelle quali potrebbero incorrere gli animali in combattimento. Quando ad autunno inoltrato le corna hanno ormai raggiunto la loro maturità e il velluto che le ricopre inizia naturalmente a staccarci (sono le stesse renne a strofinarsi contro gli alberi per toglierselo), il taglio non provoca che una minima sofferenza.
Ocerbat controlla le ferite che una renna si è procurata grattandosi contro un albero
Gli Tsaatan hanno inoltre l’accortezza di stringere uno spago alla base della parte di corno che verrà segato per evitare l’afflusso del sangue nel velluto. I cani infine assistono impazienti a questa operazione perché sanno che il velluto staccato dalle corna fresche di taglio spetta a loro: niente viene sprecato!
Il nostro patrimonio alimentare per questi giorni, invece, consiste in patate, una verza, cipolle e barbabietole, riso, pane, marmellata e del cioccolato. Iniziamo a preparare la cena e poco dopo arriva Ocerbat, traffica con una batteria collegata al piccolo pannello solare e accende una lampadina. Gli offriamo un po’ di minestra e lui carica la stufa con un quantitativo tale di legna che rimaniamo in maniche corte per tutta la durata della cena e ci addormentiamo belli caldi (da questo momento, sarà soprannominata “botta di calore Ocerbat” ogni momento di caldo estremo). Il risveglio invece è letteralmente da brividi. L’aria è talmente fredda da non riuscire neanche a respirare se non dentro il sacco a pelo ed a farci intuire la temperatura ci pensa il cilindro di ghiaccio dentro al secchio.
Nel pomeriggio veniamo invitati nella tenda di Gombo e, mentre sua moglie (da noi soprannominata affettuosamente “Finestra” per l’assenza dei due incisivi) è intenta a friggere i famosi borzog, noi stordiamo di domande Nará, la figlia dei due che parla un pochino di inglese. Lei ha vissuto cinque anni nella capitale, ha studiato veterinaria ma ora è tornata a condurre la sua vita qui: “I want to live in the taiga” ci dice sorridendo.
La taiga
È raro che le nuove generazioni decidano di seguire le orme dei genitori e portino avanti lo stile di vita nomade, così puro ma indiscutibilmente duro ed arcaico. Come se non bastassero tutti i problemi che gli Tsaatan hanno dovuto affrontare negli ultimi cinquant’anni (vedi nota a fine pagina), a minare ancora una volta l’equilibrio della tribù – questa volta dall’interno – ci hanno pensato l’afflusso di turisti e il conseguente denaro. La maggior disponibilità economica (ed alcolica) di alcuni, ha fatto passare in secondo piano il rispetto dell’autorità del capo clan, fondamentale in questo tipo di società, e sempre più giovani preferiscono seguire il modello occidentale e la vita sedentaria.
Narà ci conferma inoltre quello che già sapevamo: a causa del divieto di caccia nella taiga non rispettato, alcuni Tsaatan, tra cui suo fratello, dovranno presentarsi a giorni nel tribunale di Moron, motivo per cui lei ed altre donne della tribù li sostituiranno nei prossimi giorni nella transumanza delle renne verso i pascoli a tre giorni di cammino più a nord. Ci avverte inoltre che l’indomani tutto il campo leverà le tende – nel vero senso della parola – per spostarsi invece nel campo invernale a circa due chilometri. Se intendiamo rimanere con loro, dovremo dare una mano.
Con la pancia piena di borzog ed eccitati dal nuovo incarico (all’inizio pensavamo che ci dicessero di dover andare via) rientriamo in tenda per la quasi consueta minestra. Oltre ad Ocerbat e suo figlio (si, l’abbiamo scoperto anche noi in questo momento), ci sono due filettini di carne che sfrigolano sul coperchio della stufa: pensiamo che sia renna, invece è il risultato di una fortuita caccia all’ermellino. La pelliccia dell’animale perfettamente scuoiato – senza che muso, corpo o zampe si siano rovinati – penzola già all’interno della tenda. Stando a quello che abbiamo potuto capire, l’animale si era incautamente rifugiato su un albero e lui, per non farsi sfuggire l’occasione di mettere sul piatto un po’ di proteine, ha risvegliato in un attimo il suo istinto e ha colpito l’animale lanciando un ciocco di legno. Difficile immaginare il pacato e quasi svogliato Ocerbat in una veste così scattante!
Ocerbat ha appena sfornato due pagnotte cotte nella cenere in una buca
L’indomani iniziamo a smontare la tenda ed impacchettare il tutto in sacche comode da legare sul dorso delle renne. Anche i pali di legno vengono legati insieme e trascinati dagli animali.
Arriviamo con un sentiero al nuovo campo in meno di un’ora e togliamo da terra rami ed erbacce di troppo. Rimontiamo la tenda sotto la direzione di Ocerbat ma questa volta non è molto a prova di spifferi. Glielo facciamo notare ma lui fa spallucce, così raccogliamo del muschio misto a terra ed erba e tappiamo tutti i buchi tra tenda e terreno. Lui ci guarda stupiti, sorride e ci fa il pollice alzato.
La sera stessa del “trasloco”, quasi a darci il benvenuto nel campo invernale, le temperature precipiteranno di parecchi gradi. Non possiamo immaginare come farà il gruppo che partirà domani verso nord a sopportare il freddo senza la minima attrezzatura appropriata e dormire all’addiaccio con solo il calore delle renne e del fuoco (e qualche coperta di lana).
La partenza delle renne infonderà in noi un senso di vuoto come se si fosse portata via la vita del campo. Vedere Ocerbat, suo figlio, Nará e altri del campo allontanarsi e scomparire nel folto della taiga mentre gli anziani restano, saranno una delle scene più toccanti e tristi a cui assisteremo.
In primo piano, di spalle, Gombo e sua figlia Nará
Tzi-tzi, ovvero “Monodent”
Siamo rimasti soli nella “nostra” tenda, ma come avremo modo di notare c’è un continuo andirivieni tra le tende del campo e non ci si sente mai soli. Tra tutti ci viene a trovare anche Gombo, e ci fa capire che domani, giorno supposto per la nostra partenza, sono previsti neve, vento e gelo. Visto come aveva azzeccato le previsioni nei giorni precedenti, iniziamo a pensare di fermarci un giorno in più, anche se le scorte di cibo iniziano a scarseggiare, per non dire che sono esaurite. È rimasto uno snikers che vogliamo tenere per il viaggio di ritorno e due fette di pane.
Approfittiamo di una delle tante visite di Monodent (altro nomignolo dato a Tzi-tzi, la sorella di Finestra e di Ocerbat) per chiederle di prepararci del pane (ovviamente da comprare) in modo da poter tirare una giornata. Affamati e senza nulla nello stomaco raccogliamo legna e la spacchiamo in modo da non far morire mai il fuoco e dopo aver ben caricato la stufa ci mettiamo in cammino per andare a prendere l’acqua al solito torrente, distante ora un paio di chilometri. Fin quando non ci saranno precipitazioni più abbondanti e non sarà quindi possibile raccogliere la neve per scioglierla, bisognerà andare nel torrente vicino al precedente campo.
Entriamo nelle varie tende, o meglio, ci facciamo sentire da fuori – non abbiamo ancora superato il naturale blocco a entrare nell’intimità delle tende altrui senza “bussare”, cosa che invece è prassi tra i nomadi – e ci facciamo consegnare qualche secchio vuoto. Renderci in qualche modo utili ci fa sentire parte della comunità. Mentre spacchiamo il ghiaccio con l’ascia e aspettiamo che il livello del torrente risalga per potere continuare a riempire secchielli e teiere, la fame inizia a torturarci i pensieri: polenta oncia e formaggio fuso non ci danno tregua. Ma nella taiga le sorprese non mancano, e se il giorno precedente in cambio del nostro servizio di “acqua a domicilio” ci era stato offerto suutei tsai (tè con latte e sale) con latte di renna e ottimi borzog nella tenda di Toula, la donna più anziana della taiga (62 anni), oggi restiamo senza parole nel vederci offerto del formaggio di renna, squisitamente simile al parmigiano ma dolce, ovviamente accompagnato da suutei tsai e borzog. Quando poi Monodent ci consegna un’intera pagnotta ancora calda, ne divoriamo subito qualche fetta e il resto la portiamo con noi nel sacco a pelo per evitare che si congeli. È l’ultima nostra notte tra gli Tsaatan, ma tutto quello che abbiamo vissuto questa settimana rimarrà indelebile.
Partiamo col sole ma poco dopo il cielo si vela e, nonostante abbiamo addosso tutti i vestiti e le giacche a nostra disposizione – per farvi un idea: calzamaglia, pantalone tecnico aderente antivento, jeans e pantaloni in goretex, maglietta tecnica, maglietta in lana merino, due pile, piumino e le famose giacche di 4 kg di pelo di cui Bayarhu ci ha dotato – e il peso dello zaino ci faccia faticare, il freddo non ci molla un attimo. Solo dopo ventisei chilometri e sei ore di camminata no-stop arriviamo alla nostra agognata meta.
Stalattiti…
L’acuirsi del gelo non è stata solo una nostra impressione. L’intera superficie del lago è ora ghiacciata: moto e macchine lo attraversano da una parte all’altra. Senza neanche pensarci torniamo dalle “Zie”, che forse per premiare la fedeltà oppure per paura di essere divorate ci servono delle porzioni più abbondanti del solito e del pane fritto, e poi ci fanno uno sconto.
Bayarhu ci accoglie stupito, non riesce a credere che siamo tornati a piedi dalla taiga correndo il rischio di farci attaccare dai lupi (noi a dire il vero non sapevamo di questo pericolo) e subito ci accende la stufa. Le nostre quattro mura ci ora sembrano più familiari che mai. Per i giorni a seguire, ogni mattina sua moglie ci porterà un piatto con due pesci e del riso, forse anche lei ha letto la fame nei nostri occhi! A proposito di pesci! Andiamo alla ricerca di Gambat, il fumatore di pipa che ci aveva invitato a pescare. Bussiamo alla sua porta ma la moglie ci fa segno di andare a cercarlo sul lago. Muovere i primi passi sulla superficie ghiacciata da soli non è rassicurante e mano a mano che ci si allontana dalla costa la sensazione peggiora. Pur vedendo in lontananza diversi gruppi di pescatori e addirittura un furgoncino che passa indisturbato, i rumori indescrivibili che gli enormi blocchi di ghiaccio fanno stritolandosi tra loro ci fanno sentire sul filo del rasoio.
Una coppia di pescatori
I pesci di Tsagaan Nuurr, dalla carne bianchissima
Ma anche questa volta è bastato poco per prendere confidenza, e abbiamo finito la giornata facendo scivolate e fotografando bolle congelate perché Gambat, alla fine, non l’abbiamo trovato..
* Durante i primi anni sessanta, prendendo esempio dall’Unione Sovietica e sotto lo stesso controllo di Mosca, venne applicato un programma di sedentarizzazione forzato per i nomadi della taiga, che diede vita al villaggio di Tsagaan Nuur.
Nel 1979, per accrescere ancor di più la produttività di questa regione, venne introdotta una caccia indiscriminata a cervi e renne selvatiche, togliendo così la principale fonte di cibo per gli Tsaatan, ma non solo. Infatti le renne selvatiche servivano anche come fonte di arricchimento del patrimonio genetico di quelle domestiche e venendo a mancare, le renne iniziarono piano piano ad indebolirsi.
Solo nel 1985 gli Tsaatan poterono tornare a condurre una vita nomade – grazie ad un programma che li riconosceva come allevatori per lo stato – ma nel frattempo la Repubblica di Tula (al di là del confine mongolo, in Russia) vietò l’attraversamento dei confini impedendo quindi agli Tsaatan di seguire il loro storico itinerario ciclico stagionale. Questo comportò una permanenza più lunga negli stessi pascoli e campi, e la particolarità del terreno durante il periodo estivo e l’abbondanza di feci e urine in aree circoscritte aumentarono quindi il rischio di parassitosi.
Soltanto sette anni più tardi i nomadi poterono riacquistare ad un prezzo politico le renne e tornare definitivamente alle proprie origini. Per procedere alla vendita e alle varie formalità di registrazione, tutte le renne furono portate a Tsagaan Nuur e furono costrette a condividere gli stessi spazi di mucche capre e cavalli. Batteri e parassiti di questi ultimi iniziarono quindi a infestare le renne.
Tutto questo ebbe come conseguenza il dilagarsi di un’epidemia di brucellosi che colpì dapprima il bestiame (riducendolo nel luglio del 1996 da 1’400 capi a 400) e successivamente gli stessi Tsaatan che, a causa di un generale impoverimento (mancanza di compratori di pelli e di corna) avevano iniziato a mangiare la carne delle bestie morte. Fu necessario l’intervento della croce rossa e di organizzazioni internazionali per debellare l’epidemia e ristabilire l’ordine.
Siamo a Ulan Bator a casa dello spezino David Bellatalla: viaggiatore, antropologo, scrittore, esperto di rock progressivo e coltivatore di basilico (tra le mura domestiche). Abbiamo appena mangiato una pasta – indovinate un po’?! – al pesto fatto in casa quando David ci fa segno di seguirlo nel suo studio.
Con noi c’è anche Luciano, architetto veneto che vive nella capitale mongola ormai da anni, amante delle moto da rally, del suo Land Cruiser 80, dell’Africa attraversata da nord a sud overland e dei suoi deserti.
Ed è proprio grazie alla scatola di Antichi Toscani dalla quale David goduriosamente sta attingendo che siamo qui, quella scatola che arriva proprio da Vittorio Veneto, dalla tabaccheria di Paolo (per chi non sapesse, il fratello di Marco) dove ad agosto Luciano scopre che nel nostro viaggio passeremo per la Mongolia: “Che mi chiamino quando arrivano!” dice a Paolo lasciandogli i contatti.
Ed eccoci qui, totalmente all’oscuro di cosa la Mongolia abbia da offrirci, senza alcuna guida e convinti di partire per fare del volontariato con la Croce Rossa nel deserto dei Gobi. Invece scopriamo amaramente che ci eravamo creati troppe aspettative concrete e, mentre David ci guida in un viaggio musicale dai primi anni sessanta ai giorni nostri all’altezza di Ezio Guaitamacchi, veniamo frullati in un vortice di proposte ipotetiche. Quando usciamo dallo studio siamo completamente confusi sul da farsi.
Il giorno dopo ribussiamo alla sua porta, lo studio è come l’abbiamo lasciato la sera prima, ma ora i nostri occhi si soffermano su cimeli e pezzi d’antiquariato inzuppati di storie e, nei racconti intrinsechi di ognuno di essi, viaggiamo nel tempo sfogliando libri e srotolando mappe di ogni parte del pianeta, come alla ricerca di un indizio, fino a che troviamo una soluzione: a fine pomeriggio David ci mette sotto braccio uno dei suoi libri (“In viaggio con le nuvole” Munkhiin Useg Editore) e con le vene colme di una dose di energia difficilmente spiegabile a parole, partiamo verso nord.
Non solo i suoi racconti ci hanno fatto sognare ad occhi aperti, ma da antropologo ha analizzato la nostra scelta di vita rassicurandoci che se questo è stato irrinunciabile, allora abbiamo fatto la cosa giusta.
Con delle indicazioni a mo’ di caccia al tesoro partiamo per Moron alle 8 di mattina con un pullman che a causa di una tormenta di neve ci mette diciassette ore (anziché dodici).
MoronIl tempio buddista di Moron
Un venditore ambulante di pelli di pecora
Da lì, dopo essere riusciti ad ottenere roccambolescamente il permesso della guardia di confine per recarci nella taiga (che si trova a pochi chilometri dalla Russia) ci attiviamo per trovare due posti su un fantomatico furgoncino Uaz che in altre dodici ore, questa volta non su asfalto ma su piste saltellanti in mezzo alla steppa illuminata dalla luna, ci scarica a Tsagannuurr nel gelo assoluto delle 6 di mattina.
Una sosta nella notte
Il viaggio è stato duro, così fuori da ogni idea di confort da essere surreale, abbracciati a sconosciuti e con i polpacci incastrati tra merce e altri polpacci, in nove su sei sedili sistemati a “salottino”, con finestrini ghiacciati e musica a tutto volume. Aggiungeteci l’ubriacone a tratti molesto che tra una tracannata e l’altra, pur di prendere una boccata di ossigeno, ogni dieci minuti mette la testa fuori dal finestrino facendo entrare aria siberiana e l’incubo è completo.
Dimenticavamo, c’era anche lui sul pullmino a occupare due posti….
Fortunatamente tra tutti i passeggeri c’e una signora che parla inglese, Ulzi (che aveva lavorato come interprete proprio con David anni prima), cosicché quando davanti all’abitazione di Bayarhu (il nostro contatto) nessuno viene ad aprire, samaritanamente ci offre un pezzo di pavimento di casa sua, salvandoci da una possibile morte per assideramento.
Completamente vestiti – con anche il piumino – e dentro il sacco a pelo, riusciamo stremati a prendere sonno.
Quando dopo poche ore sentiamo il marito che spacca della legna e fa “partire il riscaldamento” un tepore sonnolento ci fa ripiombare nel sonno fino a tarda mattinata. Al risveglio Ulzi ci offre un tè e ci invita a passare a trovarla quando più ne avremo voglia: “You are always welcome!”. Per ultimo ci dá indicazioni per raggiungere la casa di Bayarhu.
Appena entriamo dal cancello e ci imbattiamo nel nostro uomo, ci rendiamo conto che non spiccica una parola di inglese. Siamo un po’ imbarazzati, pare non sapere chi siamo, ma ci invita comunque in casa e la moglie ci offre un tè. Sarà solo la telefonata di David qualche minuto dopo a sbloccare la situazione.
La moglie di Bayarhu mentre prepara i borzog!
Ci assegna una casetta nella sua proprietà, la dota di un letto, di un tavolo e due sedie, una tinozza che funge da lavandino ed accende la stufa: vorremmo essere d’aiuto in qualche modo almeno per sdebitarci di tanta gentilezza, ma lui ci tratta come ospiti d’onore.
Bayarhu
Constatiamo che qui le case sono molto essenziali. Un locale funge da salotto e camera da letto, e nei pressi della stufa a legna c’è tutto l’occorrente per la cucina, che non ha né fornelli né frigorifero né lavandino. Infatti l’acqua viene presa dal lago con delle taniche mentre il wc – in giardino – consiste in una cabina di legno con un buco al centro, una sorta di turca sospesa su una fossa che definiremo eufemisticamente “suggestiva”.
La nostra casetta e il famigerato bagnoDue cuori e una capanna
Pare che ci siano delle docce pubbliche aperte nel fine settimana, ma il nostro soggiorno a Tzagaan Nuurr non è coinciso purtroppo con questi giorni. Ecco come ci si arrangia per lavarsi
Tutte le case del villaggio si trovano all’interno di proprietà rettangolari, ben rinchiuse in recinti fatti di assi di legno alte due metri.
La luce al risveglio
Capiremo in una delle notti successive la necessita di tale difesa: stiamo cenando quando ad un certo punto bussano alla porta. Ovviamente pensiamo che si tratti di Bayarhu e apriamo senza pensarci due volte. Tre ragazzoni (per farvi capire la mole, i mongoli vantano campioni di sumo) completamente ubriachi sono davanti a noi, forse tutto si aspettavano meno di vedere due bianchi. Uno di loro entra, gli altri due come ebeti rimangono sull’uscio inermi mentre il loro compagno che a fatica si regge in piedi sta forse cercando di capire se siamo solo un’allucinazione. Alziamo un po’ la voce ed esce come impaurito. Quando chiudiamo il chiavistello scoppiamo a ridere come matti per questa parentesi colorata della nostra serata, ma risentire dopo poco l’insistente bussare con mani pesanti come il piombo non genera altrettanta ilarità. Fanno parecchio baccano – meno male – e Bayarhu deve aver capito cosa sta succedendo e arriva tuonando scacciandoli come cani randagi. E chiude il cancello.
Parentesi. Il problema dell’alcolismo affligge questa popolazione come nessun’altra finora toccata nel nostro viaggio. D’altronde la Mongolia si sta rivelando completamente diversa dal resto del centro Asia. Lì la religione musulmana in primis e l’unione sovietica poi, hanno creato un’identità distintiva e forte.
Un popolo abituato a vivere libero, a cavallo, sul dorso di un cammello o di una renna, che segue itinerari in base ai sogni e ai messaggi che la natura fornisce, dove la morte e la malattia sono anch’esse indicazioni da ascoltare, dove lo sciamano svolge un ruolo centrale di guida e guaritore, dove tutto è rito, non puo semplicemente adattarsi al nuovo che avanza senza subire uno shock.
Queste radicate e “preistoriche” tradizioni sciamaniche e le più recenti buddiste (il peculiare buddismo mongolo ha attinto a piene mani dallo stesso sciamanesimo), si scontrano molto più violentemente con i valori che contraddistinguono il modello di civiltà del “nostro mondo”. Ne consegue, a parer nostro, un generale senso di inadeguatezza. Un po’ come già successo in altre popolazioni indigene (vedi gli indiani d’America o gli aborigeni australiani), – ma questa volta a livello di intera nazione e non di una parte segregata di questa – l’alcol risponde a quella necessità di non volere sentire fallite e superate le proprie radici.
Non è difficile vedere – in città come nei villaggi – uomini barcollanti per strada o nei mini market mentre si riforniscono di bottiglie che non dureranno più di qualche ora. E se Tzagaan Nuurr si salva dall’inquinamento di bottiglie di plastica perché l’acqua si prende al lago, quelle di vodka sono disseminate ovunque. Chiusa parentesi.
Un’abitante che si rifornisce di acqua
Il giorno seguente, prima di andare alla scoperta del villaggio, passiamo da Ulzi per darle un saluto e lei si offre di aiutarci per organizzare una visita agli Tsataan (gli “uomini-renna”), magari a cavallo. La prende larga ma alla fine ci espone la situazione: la caccia nella taiga è stata bandita (assurdo a pare nostro privare i nomadi di questa fonte di sostentamento) e Bayarhu, che ora lavora come guardaparco, ha dovuto applicare la legge mettendo nei guai alcuni Tsaatan, motivo per cui tra lui e i nomadi ora non scorre proprio buon sangue: una volta arrivati al campo, sarà meglio tralasciare a casa di chi siamo ospiti.
Questa situazione di “fazioni diverse” proprio non ci voleva. Mai come in questo paesino sperduto ci siamo sentiti soli e lontani, non solo per l’effettiva distanza, ma è come se avessimo perso le redini del viaggio e non fossimo più sicuri delle nostre sensazioni e del nostro giudizio.
Usciamo un po’ avviliti e proseguiamo verso est allontanandoci dal villaggio. Raggiungiamo una sommità che ci permette di vedere al di là della collina, e il cattivo umore svanisce all’istante.
Il colorato villaggio di Tsagaan Nuurr visto da lontano
Lo specchio blu delle acque del lago non ancora ghiacciate contrasta in maniera netta e spettacolare il bianco, i larici su un lato della collina sembrano disegnati da un matematico, perfetti nella loro geometria, sotto di noi un lembo di spiaggia si insinua appuntito a rompere la dualistica cromia del lago.
Di fianco a noi, e non potrebbe essere altrimenti, a sacralizzare il luogo, un “owoo” (un monticolo di pietre e assi di legno adornato da sciarpe votive e offerte rituali). Restiamo estasiati dallo spettacolo e sentiamo dentro di noi la libertà di quello spazio.
Rientrando conosciamo Gambat, un arzillo che oltre ad offrirci una pipata di tabacco dalla sua particolare pipa ricavata da un ramo di betulla ci invita, una volta che rientreremo dalla taiga, ad unirci a lui in una giornata di pesca: una volta tornati a Tsagaan Nuur prenderemo il suo invito come una missione (il racconto nel prossimo capitolo).
Rientrando verso casa scorgiamo la scritta “газар” sopra la porta di una casetta, è il corrispondente di “tavola calda”, una delle prime parole imparate per la sopravvivenza. È abbastanza difficile mangiare bene in Mongolia, ma “le zie” ci stupiranno con una zuppa saporita e diventeremo loro clienti per tutti i giorni nel villaggio. Il loro sutetzè (tè, latte, burro e sale) ce lo sogniamo ancora oggi.
Sport equestri, al pari di lotta e tiro con l’arco, in televisione attirano quanto una partita di calcio in Italia
Stiamo sistemando gli zaini e aspettando che Ulzi ci chiami per confermarci i prezzi dei cavalli quando Bayarhu bussa alla porta e ci porge il telefono. Dall’altro capo c’e David, che ci comunica che l’indomani saremo accompagnati proprio da Bayarhu nella taiga, dagli uomini-renna.
In moto con Bayarhu per andare a registrare i permessi per andare nella taiga