Turchia
Patara
È ormai buio, carichiamo in auto un ennesimo Mustafa che guarda caso deve raggiungere Patara, come noi. E così veniamo a sapere che i 18 km di spiaggia sui quali pensiamo di dormire qualche notte sono protetti per la salvaguardia delle tartarughe e che dietro la spiaggia ci sono paludi, oltre che rovine antiche. Quello che non sappiamo è che in questo paesino c’è un ritmo caraibico e che si è talmente in pochi che nel giro di 24 ore si diventa parte della famiglia. E che famiglia! Mehmet (Memetto) Apo (lo “zio”) e Kadir (Ciccio pasticcio). Avremmo dovuto fermarci un giorno ma siamo rimasti al Camel Camping una settimana con la formula “all inclusive”, manovalanza in cambio di vitto e alloggio – ma non pensate a duro lavoro in cambio di un pezzo di pane – e dopo giorni di doccia fredda con bottiglie in mezzo ai cespugli, finalmente acqua bollente nell’hammam dello “zio”.





Kiss me Lycia
Finalmente obbligati a viaggiare col finestrino abbassato e parcheggiare all’ombra, dopo aver visitato il villaggio fantasma di Kayaköy e impanato i piedi per un’oretta nella spiaggia di Ölüdeniz, iniziamo a camminare lungo il sentiero della Via Lycia – considerato uno dei trekking più belli al mondo – con la sensazione di una ventata di fortuna in poppa.




Dream in Pamukkale



Tempo di templi




Road trip





Finale da Istanbul
Il soggiorno inaspettato da Tomaso e Sevi di cinque giorni ad Istanbul ci ha ripulito (anche nel vero senso della parola) dal vagabondare continuo di un mese e ci ha fatto vivere la Istanbul-da-bere e il relax del piacere di stare in casa quando fuori piove prima di tornare a fare i viaggiatori a budget ristretto. Con loro siamo stati in un ristorante tipico innaffiando la cena con il raki, abbiamo fatto una spaghettata bevendo vino italiano e un salto al 360° a bere cocktail.








NOSTALGHIA
Non c’entra niente la nostalgia.
È il titolo di un film di Andreij Tarkovskij, visto a casa di Tomaso e Sevi, a Istanbul. Un film che in qualche modo riflette i nostri giorni in questa città. Uno di quei film lenti in cui puoi permetterti di osservare e digerire i dettagli, dove non c’è una vera e propria trama da seguire ma un filo che ti incolla allo schermo per la bellezza intrinseca dei luoghi e per la poesia delle piccole cose.
Mentre sbrighiamo pratiche contorte per ottenere i visti, i gatti fanno un gran baccano sui tetti. Mentre camminiamo senza meta le bandiere sventolano ovunque. Mentre fischiettiamo “fiori rosa fiori di pesco” i carretti per strada vendono cuori di carciofi…
È passato un mese esatto dalla nostra partenza. L’emblema del film 1+1=1 (“Una goccia più una goccia, fanno una goccia più grande e non due”) e il discorso finale che esorta a seguire i propri sogni paiono azzeccati per la nostra prima, piccola ricorrenza. Anche se queste sono le teorie di un “pazzo”:
“La strada del nostro cuore è coperta d’ombra; bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili; bisogna che dai cervelli occupati dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, dagli asfalti e dalle pratiche assistenziali, entri il ronzio degli insetti. Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi, di cose che siano all’inizio di un grande sogno. Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi! Non importa se poi non le costruiremo. Bisogna aumentare il desiderio. Dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.”
ChEdirne?!
Scampato il rischio di non riuscire nemmeno ad arrivarci – non tanto per la solita logistica improvvisata (treno-bus-autostop-frontiera a piedi-navetta-piedi) quanto per gli allagamenti che fino a due giorni prima avevano reso impraticabile l’attraversamento del fiume – col buio e con l’ultima pita-giros greca nello stomaco arriviamo nella nostra prima tappa turca: Edirne.
La prima impressione è quella di trovarsi in un anonimo paese di frontiera un po’ sgarrupato e polveroso (pensiamo all’ennesima ricamata della Lonely) ma l’indomani, finalmente baciati dal sole, oltre ad una nuova lingua incomprensibile – nessuno spiccica più una parola di inglese – a darci il benvenuto è una tranquilla e ordinata cittadina, costellata di moschee monumentali, chador colorati e tintinnii di bicchierini di tè.
E così passiamo la giornata a gironzolare con Akan che ci racconta di tutto e di più su Edirne. Acquistiamo nel mentre una dolce dipendenza dal baklava, assaggiamo fegato fritto e scopriamo con stupore che i turchi non fumano come i greci!
Türkiye’ye hoš geldiniz
Pensavamo che il greco fosse difficile, ma appena varcata la soglia turca abbiamo capito il perché nella nostra lingua “parlare turco” è sinonimo di “parlare incomprensibile”. Meno male che 👍 è universale e così un furgoncino che vendeva tamburi si è fermato. Abbiamo cercato inutilmente di capire cosa volesse dirci e del perché fosse titubante nel caricarci ma alla fine ci ha fatto cenno di salire. Solo dopo 300 metri e altrettanti sorrisi dallo specchietto retrovisore, quando ha alzato le braccia e unito le punte delle dita creando una sorta di triangolo sopra la testa abbiamo capito perché si era fermato: lui era arrivato a casa.
Piutost che nient l’è mei piutost!